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Ecologismo Greta

Vi spiego la vera ideologia di Greta

Il corsivo di Teodoro Dalavecuras

 

Il conto economico dei quotidiani e periodici è strutturalmente deficitario ormai da molti anni: che sia Jeff Bezos a prendersi cura delle sorti del The Washington Post, o la vedova di Steve Jobs di The Atlantic, o plutocrati un po’ meno plutocrati come gli Agnelli-Elkann di La Repubblica o L’Espresso, per menzionare due testate storiche di casa nostra, è un dato di fatto che, da quando i monopolisti digitali hanno creato gli immani aspirapolvere che assorbono la quasi totalità della domanda di spazi pubblicitari, la tradizionale editoria cartacea (quella periodica che viveva appunto di pubblicità) si è trasformata in un campo abitato da cadaveri o da soggetti in stato di rianimazione permanente.

Ciò non vuole ancora dire che i giornali di carta abbiano perso ogni significato: come la Gazzetta Ufficiale è il luogo nel quale lo Stato (quel che ne resta) rende note in forma ufficiale, appunto, le proprie decisioni perché utilizzare gli araldi sarebbe troppo poco pratico, così la carta stampata rende note, e con la forza dell’ufficialità ficca nel cranio, anche dei cittadini più riottosi, le linee decise dai poteri di fatto che governano il mondo o le diverse parti di questo, a cominciare proprio da quel potere che per brevità chiamo l’Internazionale della globalizzazione, che oltre alla élite transnazionale raccoglie com’è noto i principali benefattori dell’umanità, le grandi multinazionali (di quell’altra Internazionale, quella dei lavoratori, ci è rimasto solo l’inno che può, forse, riscaldare ancora il cuore di qualche vegliardo).

Molto correttamente i “grandi” giornali, non solo cartacei ma anche quelli, altrettanto démodé, audio o video teletrasmessi, hanno aperto, qualche giorno fa, con la sensazionale notizia che Greta dopo avere dedicato poche sprezzanti parole ai politici (o magari prima, non ha importanza) ha cantato Bella Ciao, l’inno della sinistra 2.0. Anche se mi dà un po’ fastidio ammetterlo, la notizia era realmente – se non sensazionale – importante perché attestava qualcosa che tutti avevano capito da un pezzo ma che non aveva ancora ottenuto il crisma dell’ufficialità, cioè che l’ecologismo, in tutte le sue declinazioni, è di sinistra.

La verità è che l’intera ideologia dell’Internazionale della globalizzazione è “di sinistra”, per la banale ragione che, come quella dei lavoratori aveva la propria casa madre a Mosca, l’Internazionale dei globalisti ce l’ha a Washington D.C. E non può che essere “di sinistra” per la ragione ancora più banale che il nemico storico di Washington, quello in odio al quale in America si formano anche oggi maggioranze bulgare, rimane la Federazione Russa.

Dopo alcuni tentativi, talora goffi, di “cooptare” la Russia e i suoi satelliti nel magico mondo della liberaldemocrazia occidentale promuovendo leader del calibro di Boris Eltsin e taicùn del peso di Mikhail Khodorkovsky, Washington ha dovuto arrendersi all’evidenza che la Russia era governabile preferibilmente nel nome di ideologie assai meno avanzate di quelle occidentali, con i cari vecchi concetti della “società chiusa” (patria, tradizione, rispetto per le istituzioni), insomma con concetti “di destra”, totalmente inconciliabili con le idee portanti della liberaldemocrazia, soprattutto di quella aperta e “colorata” di George Soros o, per essere più concreti, del consumismo assurto al ruolo di quotidiana catechesi dell’umanità, che impone a chiunque ambisca a un ruolo pubblico di esprimere innanzitutto dileggio per le istituzioni (“bla bla bla” e simili).

Certo, che un programma piuttosto ambizioso come quello di “salvare il pianeta” si fondi su un’ideologia planetariamente divisiva come quella della sinistra 2.0 potrebbe sembrare paradossale.

Potrebbe però anche significare soltanto che l’Internazionale dei globalisti non ha ancora rinunciato a “mettere in riga”, a tempo debito, quel cinquanta per cento di umanità cattiva in quanto sovranista, affetta dal “virus del populismo”, nazionalista eccetera. Un atteggiamento che riprenderebbe, capovolgendole, le visioni più ottimistiche dell’altra Internazionale, quella morta e sepolta a Mosca alcuni decenni fa: in fondo si tratta pur sempre di redimere l’umanità, e questa è una missione che non si può mai realizzare “in un solo Paese”, se deve restare una missione.

Un’eventualità, quella appena formulata, che si enuncia solo per celia. Non si vuole certo mettere in dubbio che i pericoli per la pace mondiale arrivino esclusivamente da quel cinquanta per cento di umanità acquartierata in società chiuse e autoritarie. A pensarci bene, è così per definizione.

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