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Perché le politiche di conciliazione non aiutano a diminuire il gender gap

L’articolo di Veronica Balbi È di qualche giorno fa la notizia che un’azienda per il lavoro con sede a Padova, la Eurointerim, ha deciso di offrire un bonus a dipendenti e collaboratori che mettano al mondo un figlio. L’azienda è stata seguita subito dalla Lavazza che ha previsto lo stesso bonus per i 200 addetti…

È di qualche giorno fa la notizia che un’azienda per il lavoro con sede a Padova, la Eurointerim, ha deciso di offrire un bonus a dipendenti e collaboratori che mettano al mondo un figlio. L’azienda è stata seguita subito dalla Lavazza che ha previsto lo stesso bonus per i 200 addetti dello stabilimento di Settimo Torinese in caso di nascita o adozione di un bambino.

Nonostante gli stessi articoli parlino genericamente di incentivo per i genitori, i titoli dei giornali sono declinati al femminile: “Cinquantamila euro per le dipendenti che fanno figli” (Qui Finanza), “Un premio alle donne che fanno figli” (Corriere della Sera), “Cinquantamila euro per incentivare la natalità tra le dipendenti” (Il Mattino).
Se si parla di figli, è ovvio, si parlerà di donne.

È stato sempre dato per scontato che i sostegni e i servizi destinati a favorire la famiglia e la conciliazione con il lavoro domestico siano dedicati solo alle donne. Ma se non combattiamo questo pregiudizio, se non mettiamo in chiaro che il ruolo di cura e la genitorialità sono una responsabilità comune e non un compito ‘naturale’ delle femmine, non potremo mai favorire il progresso delle donne nel mercato del lavoro.
Ricerche Istat del 2018 rivelano che in Italia sono cresciuti i contratti part time: lo fanno il 32,8% delle lavoratrici e solo l’8% degli uomini. Questo incide pesantemente sull’avanzamento professionale delle donne.
Possiamo sinceramente credere che ruoli di vertice possano essere ottenuti da un dipendente che lavora solo per poche mattine la settimana? La concessione di tempi ridotti non può certo essere un impulso alla carriera ma, nonostante ciò, è rimasta una battaglia di retroguardia dei sindacati.

Inoltre la scelta del lavoro part-time contribuisce ad abbassare notevolmente la generazione di reddito delle donne, che rinunciano in media al 37% dello stipendio rispetto a coloro che lavorano a tempo pieno. Questo anche perché il divario salariale fa sì che gli stipendi delle lavoratrici non siano considerati sufficienti per compensare i costi addizionali dovuti al ricorso al mercato per la cura domestica e per l’accudimento di figli o parenti. Ma per contro un aumento delle retribuzioni delle donne farebbe aumentare il ‘costo-opportunità’ dell’inattività femminile e la crescita del numero di occupate e delle ore di lavoro si tradurrebbe in un aumento del Pil, in un maggiore ammontare di contributi sociali e in un maggior gettito fiscale. Si dice in giro che una donna deve lavorare il doppio per essere considerata brava la metà. Ecco, lavorare il doppio, anche accettando di essere considerate brave la metà, sarebbe un grande traguardo. Il problema è lavorare la metà.

Finché penseremo di portare le donne alle posizioni di vertice concedendogli più tempo per occuparsi della casa e della famiglia non andremo lontano e non aiuteremo la ripresa dell’economia.

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