Mike Pence non avrebbe potuto scegliere momento migliore per la sua missione a Roma. A poca distanza dalla penisola italiana, la contesa per la Libia ha visto democrazie euro-occidentali lasciare il campo ad attori eurasiatici. Le prime si sono rivelate divise, litigiose e oltremodo riluttanti all’uso della forza, mentre i secondi non hanno smarrito l’atavismo del sangue.
Per un verso, viene messo in discussione il tradizionale ruolo italiano di proconsole americano nel Mediterraneo, cerniera tra Europa, Africa e Medio Oriente. Quanto può valere un guardiaconfini non disarmato ma pacifista? Tale è infatti la condizione dell’Italia, che si dichiara indisposta a ricorrere alla forza.
Il Pierino di Prokofiev, alle prese con il lupo, sarà pur stato armato solo di un innocuo fucile a tappi, ma era di gran lunga più pugnace dell’Italia odierna. Agli occhi di Washington, siamo ormai dediti a una forma di veganesimo geopolitico e smaniosi di strapparci i canini, vestigia del nostro passato da carnivoro.
Inoltre gli eventi di queste settimane descrivono plasticamente la dinamica espansiva dell’Eurasia, che si proietta sul continente africano, traslocandovi le proprie contraddizioni. A nord, con Turchia e Russia, e a Sud, con la Cina. La Turchia, membro eurasiatico e sui generis della Nato, giostra con diabolica abilità. Non è chiaro se per gli Usa la cifra geopolitica di Ankara faccia ancora premio sui levantinismi di Erdogan, principale sostenitore della Fratellanza Musulmana assieme al Qatar e fachiro capace di mesmerizzare le capitali europee a partire da Berlino.
Pur carica di incognite e calcolate ambiguità, la Turchia è contraddistinta da innegabile volontà di potenza. Ha autocoscienza di impero. Con Pechino, capofila del blocco eurasiatico, non tratta da potenza subalterna.
Tutto il contrario dell’Italia, che, a partire dal suo massimo vertice istituzionale impregnato di cattolicesimo di sinistra, asseconda il «pivot to China» del Vaticano.
(Estratto di un articolo pubblicato su Italia Oggi)