skip to Main Content

Turchia

Perché la Turchia non mollerà la Russia. Parla il prof Donelli

I fattori economici. Il nasserismo di Erdogan. L'asse con la Russia. E non solo. Il voto in Turchia analizzato da Federico Donelli, docente di Relazioni internazionali all’Università di Trieste e autore del saggio "Sovranismo islamico. Erdogan e il ritorno della grande Turchia".

L’affermazione alle urne di Erdogan, che sfiora la vittoria al primo turno, dimostra come la legge universale del logorio del potere non vale nel caso del sultano di Ankara.

Di questo e altri temi Start Magazine ha parlato con Federico Donelli, docente di Relazioni internazionali all’Università di Trieste e autore di un interessante saggio sulle politiche di Erdogan intitolato Sovranismo islamico. Erdogan e il ritorno della grande Turchia.

Prof. Donelli, il primo turno delle presidenziali è finito con il 49% a Erdogan e con il 45% al suo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu. Possiamo dire che Erdogan ha ipotecato la vittoria?

Sicuramente Erdogan parte favorito al secondo turno. Il margine infatti è ampio. C’è un significativo 5,5-6% di elettorato che non sappiamo se andrà a votare, ma se dovesse farlo è facile che si divida: cioè una parte voterebbe Erdogan e una parte Kılıçdaroğlu.

Come si spiega il successo di Erdogan? Non è valsa per lui la stanchezza di essere stati vent’anni al potere? Niente può abbattere il fascino del sultano?

Un po’ di stanchezza della governance c’è ed è resa evidente soprattutto dal clima che si è creato, cioè da una società fortemente polarizzata in due blocchi che non comunicano tra di loro, anzi sono in scontro aperto, L’abbiamo visto nel 2019 e si è ripetuto anche adesso. Tuttavia, al netto delle ragioni strutturali che hanno favorito la vittoria di Erdogan, ossia una evidente regressione democratica, la repressione di alcune forme di dissenso interno, il controllo dei media, vediamo che malgrado tutto questo Erdogan continua ad avere una presa sull’elettorato. E questo anzitutto perché, e bisogna dargliene atto, lui sa cogliere gli umori della gente. Erdogan ha fatto la scelta di riferirsi a un ben preciso settore del popolo e questa fetta lui sa mobilitarla sempre.

Possiamo definirlo allora un presidente populista?

C’è molto populismo in Erdogan. Nella sua retorica utilizza molto i temi populisti, che fanno riferimento all’immagine turca nel mondo. Non c’è solo il motivo della lotta contro determinate élite, ma c’è anche quello dello scontro con i poteri internazionali nei confronti dei quali lui si pone come antitesi. E c’è molto terzomondismo.

Dunque, un po’ Mussolini, un po’ Fidel Castro?

Se vogliamo rimanere nella regione, io in Erdogan vedo molto l’ex presidente egiziano Nasser. Lo si vede molto nell’attuale atteggiamento di bilanciamento tra Russia e Occidente: c’è la volontà di dire che si può andare avanti in solitaria stando un po’ di qua e un po’ di là. C’è  un po’ di non allineamento, di terzomondismo, reso evidente dal fatto che lui tende a richiamare la comunità islamica mondiale, la cosiddetta umma.

Del rapporto molto stretto tra Erdogan e Putin la Turchia si è molto avvantaggiata, ad esempio con l’oleodotto Tanap è diventata un hub energetico, o almeno è questo cui aspira Erdogan. È così?

Sì, è così. Nel rilancio dello status internazionale della Turchia il rapporto che ha con la Russia è fondamentale. Tanto che anche in caso di vittoria di Kılıçdaroğlu non vedo un cambio radicale di politica. Probabilmente i rapporti diventerebbero molto più istituzionalizzati, a livello magari di ministeri degli Esteri. Però non immagino una Turchia che dall’oggi al domani interrompa questo rapporto, per due motivi: anzitutto perché non si tratta solo di un rapporto personale tra i due leader, ma perché la Russia è un partner economico-commerciale, in primo luogo in ambito energetico, ma anche in ambito turistico; secondo, perché indipendentemente dalla natura del prossimo esecutivo, il ruolo che la Turchia ha acquisito in tandem con la Russia in alcuni scenari di crisi è importante a prescindere da Erdogan.

L’affermazione alle urne di Erdogan contraddice il quadro economico disastroso della Turchia, imputabile decisamente a lui e alle sue politiche. Come si spiega questo cortocircuito?

Si spiega innanzitutto col fatto che Erdogan gode ancora di tantissimo credito, derivante dal fatto che negli ultimi vent’anni il tenore di vita generale della popolazione turca è migliorato. Un altro aspetto forse ancor più rilevante è l’incertezza su cosa verrebbe dopo di lui. Paradossalmente si crede cioè che sia lui a poter risolvere la crisi economico-finanziaria, più di quanto non sarebbe in grado un eventuale governo di coalizione con posizioni molto varie, differenti e in alcuni casi contrastanti fra di loro.

Citando il suo libro, le chiediamo di definirci il sovranismo islamico di Erdogan.

Il sovranismo islamico nasce da una matrice che è essenzialmente il profondo nazionalismo turco, che è sempre stato presente anche se oggi si assiste a uno scontro tra due diverse sue forme: una di tipo laico e l’altra più conservatrice e legata a simboli identitari di tipo religioso, cioè islamico. Quello che ha fatto Erdogan è stato riuscire a unire la componente del nazionalismo turco alla nostalgia verso il passato imperiale ottomano, di cui l’elemento islamico non è l’unico ma è uno dei principali, Nelsovranismo islamico Erdogan ci mette l’idea di rilancio di una grande Turchia richiamando quello che era il ruolo storico del Paese, che è quello di un Paese chiave per gli equilibri geopolitici regionali, che era poi il ruolo dell’Impero ottomano, ma anche l’idea di essere il Paese guida dell’intera umma.

Che paralleli istituirebbe tra il sovranismo di Erdogan e i fenomeni affini che abbiamo visto svilupparsi in Occidente?

È chiaro che i contesti culturali sono molto differenti, però qualche elemento comune si può rintracciare. Penso ad esempio alla tendenza di Erdogan a schierarsi dalla parte degli emarginati, a farsi portavoce della fetta di popolazione totalmente esclusa dal sistema politico, allo sforzo di cercare sempre dei nemici interni ed esterni. Erdogan cioè rappresenta il classico schema politico in cui c’è un noi che si contrappone a un loro. Poi ci sono le critiche al sistema finanziario globale, e poi ancora ci sono il nazionalismo, la grandeur e tutti quegli elementi che si possono trovare in personaggi come Orbán, Salvini, Bolsonaro o lo stesso Trump.

Ascoltando la sua risposta tra i parallelismi tra il sovranismo di Erdogan e quello degli altri personaggi politici viene da pensare che esistano degli archetipi, delle categorie politiche universali che ritroviamo in differenti contesti geografici, culturali e politici.

Come le dicevo, ci sono sicuramente dei tratti comuni, che renderebbero teoricamente possibile creare una tassonomia e tipologia di fenomeni politici. La Turchia tuttavia è sicuramente un caso molto particolare innanzitutto dal punto di vista del tipo di regime che noi scienziati politici definiamo di autoritarismo competitivo. Se però dovessi identificare degli elementi comuni, indicherei il fascino illiberale, cioè l’idea che all’interno di un sistema illiberale alcune sfide poste dai processi di globalizzazione siano più facilmente affrontabili, e il secondo è la contestazione di un certo ordine globale.

Secondo lei alla fine il popolo turco cosa vuole di più: la Tesla o Gerusalemme palestinese?

Direi senz’altro la Tesla, e anche l’Iphone.

Back To Top