Beata ipocrisia. Nello stesso torno di tempo in cui tutta la sinistra si strappa i cappelli per la nota del Vaticano, accusandola di interferenza da parte di uno Stato estero, diretta nientemeno che ad esautorare la sovranità del Parlamento, l’Italia aggiunge la sua firma al manifesto dei 14 Paesi europei che condanna la legge ungherese votata da quel Parlamento con la quasi l’unanimità, che, a quanto mi è dato sapere, si limita a vietare la propaganda dell’omosessualità nelle scuole e nella pubblicità, cosa condivisibile o meno ma certo non scandalosa. Immaginate al contrario se nel nostro benedetto Paese, il mondo cattolico pretendesse di organizzare e gestire una campagna scolastica e pubblicitaria a favore della eterosessualità, come premessa e base della famiglia naturale. Basta e avanza alla bisogna che qualche associazione organizzi un convegno su tale famiglia, come è successo a Verona, la sola che la nostra Costituzione conosca e promuova come connotata da una fondamentale finalità etico-sociale, perché si scateni un’autentica tempesta mediatica, con una sollevazione dei mass media progressisti.
Per quanto largamente condiviso, il progetto di legge Zan – contrabbandato come un semplice e neutro allargamento dei diritti civili nei confronti di soggetti emarginati e perseguitati in ragione del loro orientamento sessuale – costituisce un passaggio che deve essere considerato con attenzione. Certo per il suo contenuto, ma anche e soprattutto per il messaggio che intende far passare, una assoluta e incondizionata equiparazione fra la cosiddetta famiglia tradizionale, fondata sulla coppia eterosessuale e proiettata potenzialmente verso la riproduzione fisica e culturale, e qualsiasi altra combinazione, forse nemmeno esaurita dall’attuale sigla che la rappresenta, Lgbtq. Niente di male, basta saperlo, al riguardo nella nota verbale trasmessa all’ambasciata italiana dalla Segreteria vaticana, c’è un passaggio fondamentale, che ben può essere definito strategico:
“Ci sono espressioni della Sacra Scrittura e delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa Cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione”.
È un “non possumus” dottrinale, attinente all’hard core dell’insegnamento millenario, recepito nel catechismo, insegnato negli oratori, presente nelle prediche domenicali, trasmesso dai docenti di religione, ben percepibile nelle scuole private, propagandato dall’associazionismo cattolico. Tutto questo sarebbe garantito, stando alla nota verbale, dall’art. 2, co. 1 e 3, del Concordato, per cui “La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione nella materia ecclesiastica.”; e, rispettivamente “è garantita ai cattolici e alle loro associazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
Ora tale riserva è fondata? Senza alcuna pretesa di avanzare niente più che una perplessità, mi richiamo ad un precedente scritto, dove a prescindere dalla neobattezzata “identità di genere”, di cui all’art. 1 del progetto, rivelatasi problematica laddove già introdotta – data la sua genericità e ambiguità come fattispecie penalmente rilevante, dipendendo dal come uno si senta sessualmente parlando, senza che rilevi né l’aspetto esteriore, né un cambio testimoniato dalla carta di identità, né un processo medico-chirurgico in atto – a prescindere da tutto questo, a far pensare è l’art. 4 dello stesso progetto, dove non ci si accontenta di far “salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte specifiche riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, rinviando così alla giurisprudenza costituzionale e ordinaria in materia, ma si aggiunge una sorta di delega in bianco dall’elevato potenziale restrittivo, cioè “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”.
Per non parlare di quel fuoco di artificio finale, di cui all’art. 7, comma 1, “La Repubblica riconosce il giorno 17 maggio quale Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, una elencazione che andrebbe spiegata per essere compresa, con, al comma 3, la previsione che in tale occasione “sono organizzate cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile”, e che “le scuole (tutte anche quelle cattoliche, ndr), nonché le altre istituzioni pubbliche provvedono alle attività” in parola.
E pure fino a ieri la conferenza episcopale aveva fatto capire lo stesso, cosa è cambiato? Due cose fondamentali: la prima è che nonostante qualche goffo tentativo di vedervi una iniziativa di quella parte della curia romana contraria alla svolta ecumenica del Papa, è di tutta evidenza che una simile mossa non avrebbe potuto essere presa senza una sua consapevole partecipazione. Sembrerebbe costituire sempre una sorpresa che le aperture pastorali siano considerate tacite rinunce a irrinunciabili identità dottrinali, addirittura elevate a sacramenti, ieri l’ordine sacerdotale riservato agli uomini, vincolati al celibato, oggi il matrimonio eterosessuale.
Ma è la seconda cosa a far fare all’intera questione un salto di qualità, perché la trasforma da “politica” in “giuridica”, con la chiamata in causa della nostra stessa Costituzione, sì da rendere un fuor d’opera tutta la gran cassa sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento. A venire in rilievo è l’art. 7 della nostra Costituzione, a suo tempo oggetto di un confronto serrato nell’Assemblea costituente, risolto col beneplacito dello stesso Togliatti, per cui “lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Ora, in forza di questo articolo, il Concordato, come modificato nel 1985, è incorporato nella nostra Costituzione, come un trattato internazionale, che non si è ritenuto mettesse in questione né la laicità dello Stato, né la sovranità del Parlamento, entrambe le cose già date per risolte, senza poter essere messe in discussione.
Ora una delle due parti, la Chiesa come Stato estero, il Vaticano, ritiene che quel trattato sia a rischio di essere violato, lo fa nei confronti dell’altra parte, lo Stato italiano, anzi letteralmente la Repubblica italiana, facendo intravvedere quello che sarebbe il procedimento da seguire, quale previsto dall’art. 14 dello stesso Concordato, per cui “se in avvenire sorgessero difficoltà di interpretazione o di applicazioni delle disposizioni precedenti, la Santa Sede e la Repubblica italiana affideranno la ricerca di un’amichevole soluzione ad una Commissione paritetica da loro nominata”. Mi dispiace per mister Draghi, ma la patata è più bollente di come sembra l’abbia giudicata nella sua risposta, perché, ripeto, qui ad essere in gioco è proprio lui, come presidente del Consiglio: se rispondesse con un rifiuto secco alla costituzione della Commissione, si metterebbe automaticamente dalla parte del torto, comportamento che non è nel carattere dell’uomo; se aderisse alla costituzione di quella Commissione, segnerebbe la morte del progetto Zan, che ne verrebbe ritardato a tempo indeterminato. Prenderà tempo, anzitutto in assenza di una richiesta formale, che certo non verrà avanzata in assenza di una previa manifestazione di disponibilità ad accettarla, poi favorendo una qualche modulazione del progetto Zan, che tranquillizzi la Chiesa, ma soprattutto non arrechi una ferita insanabile alla sua eterogenea maggioranza.
Non ci vorrebbe molto a rendere condiviso tale progetto, tanto più che così com’è non garantisce una navigazione sicura. Basterebbe se non eliminare, precisare che cosa si intenda per “identità di genere”, quale ne sia la riconoscibilità, a prescindere dalla mera autocertificazione; lasciare la garanzia della libertà di opinione, senza la spada di Damocle costituita dalla quella riserva, autentico passpartout per una rilevanza penale a tutto campo, per cui, come visto, tale libertà possa essere giudicata idonea “a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Quanto alla giornata nazionale mi sembra che presupponga una buona comprensione della sessualità in tutta la sua complessità, che dovrebbe essere offerta dalla scuola, proprio nella fase in cui esce dalla pubertà, altrimenti che cosa si dovrà dire parlando solo di varianti che rappresentano mere minoranze, si rischia di innescare proprio quanto si vorrebbe giustamente evitare, una qual sorta di caccia dei tipi che vi rientrassero.
Articolo pubblicato su Atlantico Quotidiano, qui la versione integrale.