Skip to content

Perché la destra di Meloni è un po’ democristiana

Commenti e opinioni in libertà dopo la kermesse di Atreju. I Graffi di Damato

Sono passati ormai 30 anni dalla morte della Dc, di cui francamente non considero neppure appendici il Partito popolare riesumato dal buon Mino Martinazzoli e nemmeno quel che di democristiano è stato da alcuni visto o addirittura vissuto prima nella Margherita e poi nel Pd. O almeno in quello guidato per ultimo da Enrico Letta, non sapendo ancora come classificare, francamente, quello di Elly Schlein. Da cui sono usciti non a caso alcun ex o post-democristiani nella sostanziale indifferenza di una giovane segretaria proveniente del resto da tutt’altra storia. E anche anagraficamente incapace -perciò senza colpa- di sentire, capire e quant’altro cosa fosse stata la Dc di Alcide De Gasperi, di Amintore Fanfani , di Aldo Moro, di Ciriaco De Mita, per fermarmi a quelli citati da Marco Follini sulla Stampa in un acuto, sofferto articolo di recensione delle “691 pagine fitte di appunti e di note di tre studiosi di vaglia” come Guido Formigoni, Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio “sul cinquantennio democristiano”: pagine fresche di stampa per le edizioni del Mulino.

De Gasperi, Fanfani Moro, De Mita sono stati citati da Follini anche a costo di fare un torto a uomini come Guido Gonella, Paolo Emilio Taviani, Mario Scelba, Antonio Segni, Mariano Rumor, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, per dimostrare con la loro storia che “la Dc non ebbe mai un capo”, fra le virgolette. Essa trattò anche loro “in modi fin troppo ruvidi”, con De Gasperi “bistrattato dai più giovani”, Fanfani e Moro “ricondotti tutti e due all’ordine doroteo che avevano cercato di scalfire” e De Mita “forlanizzato dopo i suoi primi anni rampanti” che credo avessero suggestionato un po’ anche Follini. Ma quella di non avere mai avuto un capo, sempre fra virgolette, fu una delle ragioni, se non la principale, della lunga vita dello scudo crociato, dove lavoravano assiduamente per il partito lontano dai riflettori in tantissimi, a livello locale e nazionale, ricchi solo delle loro competenze e della loro generosa militanza.

Non dite, per favore, a Follini e neppure a me, modestissimo e anziano cronista politico, che a chiudere quella cinquantennale esperienza fu Tangentopoli. “Mancò alla Dc degli ultimi anni- ha scritto Follini- una prospettiva. Dalla fine di Moro in poi si procedette alla cieca, senza un disegno. Se il compito che Moro aveva dato a se stesso e al suo partito fu quello della “democrazia compiuta”, dello sblocco del sistema, quell’obiettivo sembrò svanire all’orizzonte, a tutto vantaggio di una quotidianità che strideva con i mutamenti del Paese”. Una quotidianità- aggiungo io- che durò una quindicina d’anni non tutti da buttar via, con l’inflazione riportata sotto le due cifre, solo grazie alla ritrovata alleanza con i socialisti di Bettino Craxi, sottrattisi alla subalternità ai comunisti cui li aveva ridotti Francesco De Martino.

Paradossalmente di democristiano adesso sopravvive solo “la dimensione” – come l’ha chiamata Flavia Perina sulla Stampa scrivendo di Atreju- del partito della Meloni. Una dimensione che ha impensierito anche Follini scrivendo ancora prima di lei, sempre sulla Stampa, del “Partito-Paese” che fu lo scudo crociato ora “fagocitato dalla destra”.

Nel condividere con Follini i danni procurati alla Dc dal sequestro e dall’assassinio di Moro, individuato dai brigatisti rossi come l’uomo chiave del suo partito e dell’intero sistema politico italiano, vi confesso di essere rimasto disorientato leggendo -peraltro nello stesso giorno- su Repubblica il racconto degli “amici improbabili” che sono diventati, al termine di un lungo percorso di “giustizia riparativa”, Agnese Moro, la terzogenita dello statista democristiano ucciso nel 1978, e Franco Bonisoli, partecipe del commando brigatista che lo sequestrò in via Fani, a poca distanza da casa, fra il sangue della scorta decimata in quella che da parte di una stessa terrorista fu definita “una mattanza”. Alla quale seguì con una sinistra coerenza dopo 55 giorni l’assassinio dell’ostaggio, cui i terroristi spararono attorno al cuore perché -ha accertato l’ultima commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Giuseppe Fioroni- l’agonia fosse più lenta e dolorosa.

“Amici improbabili”, ripeto col titolo di Repubblica non so dirvi francamente se con più ammirazione cristiana o sgomento per tutto ciò che quell’orrenda, oscena tragedia rappresentò per la democrazia italiana, oltre che per il povero, incolpevole Moro e la sua famiglia.

Pubblicato sul Dubbio

Torna su