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Giorgetti

Perché il caos dei 5 Stelle attapira il Pd di Letta

Che cosa succederà fra M5s e Pd? I Graffi di Damato

 

A dispetto delle apparenze tradotte nel titolo in cui Il Foglio si chiede, o cerca di spiegare ai lettori “quanto può far male al governo lo scazzo tra Grillo e Conte”, o nel titolo di Repubblica su “Draghi in equilibrio sulle rovine grilline”, col sottinteso che sia un equilibrio instabile, non è il presidente del Consiglio a rischiare di più nella crisi non esplosa, per cortesia, ma aggravatasi nel MoVimento 5 Stelle. Dove la situazione è ormai tale, dopo il sostanziale vaffanculo di Beppe Grillo e Conte, e viceversa, che persino al Fatto Quotidiano, abituati a mirar le stelle qppunto, hanno titolato che esse hanno solo “2 giorni per non morire”.

Ma due giorni per non morire sono forse anche troppi. O, se preferite, troppo pochi se si pensa all’ipotesi di un’agonia ancora più lunga e dolorosa: se non per il paziente sedato a dovere da qualche medico pietoso, almeno per quelli che gli hanno voluto bene, e magari ancora glene vogliono da incalliti visionari, come Beppe Grillo si è orgogliosamente autodefinito contestando a Conte di non avere voluto imparare ad esserlo anche lui, studiandosi bene la storia ormai più che decennale del movimento che ha sognato da febbraio di potere davvero “rifondare”. Quella infatti fu la missione che da visionario -ripeto- il comico genovese affidò in una domenica mattina di febbraio all’ex presidente del Consiglio nell’albergo romano affacciato sui ruderi dei Fori Imperiali.

Arrivati come siamo sulla soglia del cosiddetto semestre bianco, quando il presidente della Repubblica in scadenza di mandato non può sciogliere le Camere e restituire la parola agli elettori, sono disarmati anche i grillini che volessero scaricare sul governo gli estremi effetti delle loro liti interne. Una crisi si aprirebbe con la soluzione scontata della sostanziale conferma del governo cosiddetto uscente, con qualche ministro in meno. La maggioranza sopravviverebbe con quella parte del movimento che, comunque si volesse o dovesse chiamare, dovesse dissentire dal resto. Quella dei pentastellati di sentirsi e dirsi “la maggioranza”, per quanto relativa, nel Parlamento uscito dalle urne del 2018 ormai è solo una pretesa, non più una realtà dopo tutti i deputati e i senatori che il movimento ha perso per strada, cacciandoli o non. Ed è diventata una pretesa anche quella di potere svolgere, nelle condizioni in cui si sono messi da soli, chissà quale ruolo nella partita del Quirinale che si dovrà giocare a febbraio dell’anno prossimo.

Non è a rischio il governo Draghi, d’altronde cresciuto nell’ultimo mese di cinque punti nell’indice di gradimento appena rilevato da Ipsos per il Corriere della Sera, di cui riferisce oggi Nando Pagnoncelli precisando ch’esso è arrivato a 69 punti, 71 per la persona del presidente del Consiglio. A rischio piuttosto è il segretario del Pd Enrico Letta, che fa bene nelle foto a rotolarsi le maniche della camicia perché lo aspetta una bella fatica. Che è quella di fronteggiare i malumori nel suo partito, convinto nei mesi scorsi, dopo le improvvise dimissioni di Nicola Zingaretti, di mettersi nelle sue mani, e non in quelle di un Conte “scontato”, come lo ha sfottuto Stefano Rolli nella vignetta del Secolo XIX: un Conte che aveva ricevuto da Grillo l’incarico non tanto di rifondare il MoVimento 5 Stelle quanto di fargli da prestanome proprio su tutto, a cominciare dalla politica estera filocinese. La sponda di Conte è diventata a questo punto per Letta una trappola politicamente fatale.

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