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Conte

Perché Giuseppe Conte mi pare un misirizzi

Giuseppe Conte visto da Teo Dalavecuras

Il misirizzi, comunemente noto come “sempre in piedi”, secondo il vocabolario è “quel giocattolo a forma di pupazzo, imbottito di piombo alla base in modo che tende sempre a rizzarsi comunque venga collocato”. Un giocattolo, immagino, oramai poco diffuso dacché i bambini già a due anni maneggiano strumenti elettronici per il compiaciuto stupore di genitori e altri adulti circostanti. Così che, verrebbe da dire, la funzione del “sempre in piedi”, cioè dell’oggetto in movimento che provoca stupore perché inscena la riproducibilità artificiale della legge fisica della gravità, la svolgono i più piccoli comportandosi – che sorpresa! – da esseri viventi che reagiscono agli stimoli ambientali.

Se dico che l’avvocato professore Giuseppe Conte, nei non pochi passaggi critici della sua ancor breve carriera di politico di professione, come l’ultimo che lo obbliga a confrontarsi con Luigi Di Maio, mi ricorda il misirizzi, non lo faccio per mancare di rispetto né al leader, né al professionista: tengo a sottolinearlo, memore di una lontana intervista del padre di Conte che commentava con qualche scetticismo la svolta professionale del pur beneamato figlio, segnalandone l’esagerata ambizione (quasi che l’ambizione in politica sia un handicap: mistero nel mistero): gli ambiziosi sono spesso permalosi e l’ultima cosa che desidero è ferire la temibile suscettibilità dell’ex premier.
Resta il fatto che la storia politica dell’avvocato Conte, che dura ormai da quasi quattro anni, è un rosario di gaffe legate insieme da un eloquio inutilmente pomposo e dalla sistematica implausibile vanteria di risultati dei quali nemmeno i suoi più convinti sostenitori possono credibilmente riconoscergli il merito: a cominciare da quella di aver dato l’impulso decisivo in Europa al percorso del Pnrr oppure, se si preferisce, da quella di avere gestito in maniera esemplare la prima fase della lotta al coronavirus facendo dell’Italia un modello invidiato in tutto il mondo. Di là dei singoli episodi, è difficilmente contestabile che l’incapacità di nascondere irritazione, risentimento, voglia di apparire e di prevalere, combinate con l’inesperienza specifica del mestiere, non siano precisamente gli ingredienti di una ricetta per il successo in politica.

Quella appena ricordata, però, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia mostra un Conte che ha inanellato, in meno di quattro anni, una serie di affermazioni stupefacenti, non solo per un politico alle prime armi: dal nulla a due volte di seguito presidente del Consiglio, sostenuto da due coalizioni contrapposte, dal nulla a capo politico del principale partito (sì, d’accordo, movimento…) del Parlamento italiano. Un cursus honorum che più di un ex pezzo da novanta dell’antica oligarchia democristiana non potrebbe non invidiare. Soprattutto, in questi anni, ha mostrato una dote decisiva, quella appunto del sempre in piedi. In qualsiasi gaffe inciampi, qualsiasi enormità proferisca, è inaffondabile, non solo “tende a rizzarsi” come dice il vocabolario, ma non paga mai il prezzo degli errori nel senso che questi non attirano i fari dell’opinione pubblica in maniera durevole (a differenza, per dirne uno, da quanto accade a Matteo Renzi).

Gli stessi media che, a partire dal Corriere della Sera, da anni si dedicano metodicamente al character assassination di Renzi e dei suoi cari con ampio corredo di vignette satiriche, se proprio devono fare qualche critica a Conte la calano del contesto esoterico di profonde analisi della situazione politica. Perfino l’argomento dei rapporti di Conte con il suo mentore Guido Alpa viene maneggiato coi riguardi che si riservano all’argenteria pregiata o agli oggetti di antiquariato: coi guanti bianchi. Renzi nel 2016 era sistematicamente e pubblicamente svillaneggiato da fior di accademici, per aver osato proporre una riforma della “costituzione più bella del mondo”, riforma pur sempre approvata reiteratamente dal Parlamento e, in sede di referendum, dalla non trascurabile minoranza del 40 per cento dei votanti (o forse semplicemente perché una volta si era permesso di usare la parola “professoroni” all’indirizzo della permalosa categoria degli accademici). Conte, invece, nel momento più drammatico della crisi pandemica ha potuto permettersi di nominare commissario straordinario e onnipotente per il Covid, con conseguenze piuttosto negative per il Paese, un signore che evidentemente godeva della sua cieca fiducia ma aveva il piccolo difetto di esercitare la propria funzione “a mezzo servizio”, rimanendo contemporaneamente impegnato nella gestione di una importante holding pubblica, senza nessuna conseguenza negativa, né per lui né per il suo fiduciario. Nel silenzio, ça-va-sans-dire, dell’Accademia.

Tra i sostenitori di Conte ce n’è di insospettati, come Barbara Spinelli, la giornalista/intellettuale di sinistra trasformatasi in promotrice della “lista Tsipras” alle elezioni europee del 2014 e quindi in parlamentare europea. Nella prefazione ai “segreti del conticidio”, il libro di Travaglio dell’anno scorso che descrive appunto come un micidiale complotto la mancata conferma di Conte a Palazzo Chigi per una terza volta all’inizio del 2021, la Spinelli si produce in una invettiva di rara violenza nei confronti di quanti hanno osato osteggiare le sacrosante ambizioni dell’avvocato di Volturara Appula.

Come si spiega la vistosa contraddizione tra i limiti oggettivi del profilo professionale di Conte in quanto politico e il suo innegabile successo personale? Nemmeno quando Grillo lo discredita pubblicamente dandogli dell’incompetente i media vanno al di là del minimo sindacale: registrano la notizia e passano oltre, un selfr-estraint certamente commendevole, che è tuttavia rarissimo incontrare nella stampa italiana.

Quale vaccino garantisce a Conte la quasi immunità da attenzioni mediatiche indesiderate tutte le volte – e non sono così rare – che le sue uscite si prestano alla critica severa, al sarcasmo e all’ironia? Sembrerebbe una curiosità legittima, considerato che l’uomo non ha abbandonato la pretesa di determinare, come un capo politico può farlo, il futuro del Paese.

Certo, c’è l’antica propensione del giornalismo italiano a sparare sulla Croce Rossa; c’è il fatto che i nemici dei miei nemici sono i miei amici, e se c’è qualcosa di assodato è l’inestinguibile esibito astio di Conte per Renzi, che rimane il villain of the pièce nella commedia messa in scena quotidianamente dalla pubblicistica politica e parapolitica italiana. Ma basta così poco?

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