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Perché l’emendamento Costa può salvare il giornalismo italiano

Che cosa cambia davvero dopo l’approvazione dell’emendamento proposto dal deputato di Azione, Enrico Costa. Il commento di Gregory Alegi, storico e giornalista, docente alla Luiss Guido Carli

 

Vietare la pubblicazione integrale delle ordinanze di custodia cautelare è un attentato alla libertà di stampa come si legge un po’ dappertutto dopo l’approvazione dell’emendamento proposto dal deputato di Azione Enrico Costa? O è una grande opportunità per riscoprire la professionalità del giornalista e la funzione dei giornali?

A smentire l’equivalenza tra impubblicabilità degli atti integrali e bavaglio alla stampa bastano due osservazioni. Fino al 2017 la pubblicazione integrale era vietata, ma nessuno ha mai pagato per la divulgazione di notizie coperte dal segreto istruttorio (almeno fin quando esse andavano nella direzione voluta da chi indagava, ma questo è un altro discorso). Ciò non impediva ai giornali dar conto delle inchieste, anche grazie ad ampie fughe di notizie che consentivano a stralci – possibilmente moralistico-pruriginosi – di andare in prima pagina. Per trovare un caso clamoroso, basta ricordare che nel novembre 1994 il primo invito a comparire di Silvio Berlusconi uscì sui quotidiani il giorno 21 prima ancora di essere recapitato all’indagato il 22, in quel momento impegnato a Napoli nel vertice internazionale contro la criminalità.

Né si può dire che la mancata pubblicazione di testi integrali equivalga a impedire ai giornali di dar conto dei processi importanti. Poiché, con rare eccezioni, i dibattimenti sono pubblici per legge, il giornalista può dar conto ai lettori di tutto quanto viene detto in aula, comprese le cose più scomode per gli imputati. Il filtro, piuttosto, è a monte: dove le indagini potrebbero non tradursi in rinvii a  giudizio, ed è dunque forte la differenza tra il danno reputazionale e la responsabilità effettiva. Se si crede davvero alla presunzione d’innocenza sancita dalla Costituzione, la tutela di chi è innocente non solo in senso tecnico non è un bavaglio alla stampa.

Fin qui nulla di nuovo: si tratta di argomenti spesso utilizzati dal fronte garantista, tanto politico quanto legale. C’è però una terza prospettiva che manca al dibattito: quella giornalistica.

E IL GIORNALISTA?

Se l’atto è integralmente pubblicabile, perché non dovrebbe essere diffuso dal giudice stesso che lo produce, senza passare per il giornalista, che resta un intermediario privato con fini commerciali? I giornali statunitensi pubblicano regolarmente il link alle richieste di rinvio a giudizio dei pubblici ministeri, ai provvedimenti e alle sentenze, come quella della Corte Suprema del Colorado sulla non candidabilità di Donald Trump.

La disponibilità pubblica e diretta spegne la dinamica dello scoop (magari a favore del giornalista che “appoggia dall’esterno” le indagini) e sposta l’accento sul significato del provvedimento, sulla forza dell’argomentazione giuridica, sulla risposta dell’indagato e sull’opinione degli addetti ai lavori. Ed è qui che il giornalista può far valere la propria preparazione, capacità e professionalità.

Appiattirsi sulla riproduzione testuale di verbali e atti ufficiali, magari ripresi dalle agenzie, comporta infatti la rinuncia a quella che una volta si chiamava “mediazione giornalistica”, senza la quale i giornali diventano tutti uguali e intercambiabili tra loro. Peggio ancora, significa aprire alla sostituzione dei giornalisti con l’intelligenza artificiale. Prelevare frasi da testi esistenti e incollarle in un articolo è precisamente ciò che già oggi Chat GPT e gli altri Large Language Models fanno benissimo. Se l’umano fa solo le stesse cose della macchina, per definizione più rapida, precisa, instancabile, è facile prevedere chi vincerà.

DAI VERSI LIBERI AL SONETTO

Per salvarsi, il giornalismo italiano non deve solo imparare a separare i fatti dalle opinioni – da una parte il documento, dall’altro la sua interpretazione attraverso un contesto il più accurato possibile – ma anche ritrovare la sua funzione centrale. Che non è più quella di apportare lettori agli inserzionisti, con annessa tendenza a privilegiare i meccanismi acchiappa-click e di Search Engine Optimization (SEO), ma di fornire bussole credibili per un mondo sempre più complesso.

Chi non scinde la funzione “stampa” da quella “propaganda”, che regimi e partiti autoritari inevitabilmente abbinano, si condanna all’irrilevanza, non solo per il continuo bisogno di nemici-catalizzatori ma soprattutto per la prevedibilità stilistica e contenutistica. Anche qui, si torna all’Intelligenza Artificiale, già oggi in grado di imitare lo stile di – poniamo – Marco Travaglio ma non ancora – si spera – di Umberto Eco. Ma altrettanto vale per quanti si limitano a “passare” i comunicati delle aziende o “incollare” i lanci d’agenzia, magari sotto l’ambigua firma Redazione. Sono le forme di giornalismo che rischiano più di tutte.

Se ancora c’è uno spazio per il giornalismo, non è per quello copia-incolla, costruito sulle relazioni privilegiate con una parte, ripagata con la fedeltà acritica. Sopravviverà piuttosto chi saprà trovare i fatti nascosti (“Notizia è qualcosa che qualcuno vorrebbe non si sapesse; tutto il resto è pubblicità”, secondo un vecchio adagio), le fonti per verificarli (“Se la mamma ti dice che ti vuole bene, fattelo confermare da una fonte indipendente”), la chiave per interpretarli, le parole per raccontarle senza luoghi comuni.

Soprattutto, si salverà chi saprà usare il garantismo come stimolo anziché limite. Chi saprà rinunciare alla scorciatoia del verso libero per accogliere la sfida del sonetto, con i suoi quattordici endecasillabi in quartine a rima alternata e terzine in rima varia. Fuor di metafora, chi saprà cercare le notizie nelle aule nei tribunali senza aspettare il recapito dei documenti a casa, parlare con la difesa oltre che con l’accusa, verificare con gli strumenti giornalistici le voci strampalate o anche solo improbabili. L’emendamento Costa non vieta nulla di tutto questo. Anzi, invita a riscoprirlo.

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