Grazie anche a Greta Thunberg ed ai milioni di giovani che si stanno sensibilizzando sul cambiamento climatico, i temi ambientali stanno riacquistando centralità.
C’è però un convitato di pietra in questo dibattito ed è la crescita demografica del pianeta.
L’Agenda 2030 dell’ONU sullo sviluppo sostenibile è stata votata a New York nel settembre 2015 e contiene 17 obiettivi prioritari e 169 target, ma la questione demografica non appare in evidenza.
PREVISIONI E PRIORITÀ
Può sembrare un paradosso che mentre gli abitanti della terra si avviano verso i dieci miliardi ed oltre, l’attenzione delle classi politiche di molti paesi su questo tema sembra assai sfumata, forse perché nella comunità scientifica internazionale ci si accontenta della previsione generale che alla fine di questo secolo la popolazione complessiva del pianeta comincerà a declinare per la prima volta nella storia dell’umanità.
Ciò sembra fornire a molti il rassicurante retro pensiero che il problema si risolverà da solo evitando la sgradevole necessità di investirvi risorse economiche, politiche e culturali.
In realtà le visioni più o meno ottimiste o pessimiste che si stanno sviluppando si differenziano sul prezzo che il pianeta dovrà pagare per sopportare questa crescita demografica.
L’EVOLUZIONE DEL DIBATTITO
È ormai chiaro che il degrado del pianeta sta procedendo su diversi versanti.
Sono lontani i tempi in cui le preoccupazioni di Malthus sulla crescita geometrica della popolazione parevano confliggere solo con la crescita aritmetica delle risorse agricole ed alimentari.
Già nel 1948, con i contributi di William Vogt “Road to survival” e di Fairfield Osborn jr. “Our plundered planet”, la tematica ambientale affiancava quella alimentare e negli anni successivi la “rivoluzione verde” di Norman Borlaug poteva incrementare la produzione agricola dal Messico al Pakistan solo al prezzo di un uso massiccio di fertilizzanti, antiparassitari e biotecnologie.
Nel 1968 il “neo-malthusiano” Paul Ehrlich pubblicò “The population bomb” con toni allarmati sul versante ecologico, ma quando – nel 1980 – scommise con l’economista “cornucopiano” Julian Simon che il prezzo di cinque materie prime (rame, tungsteno, cromo, nichel, stagno) sarebbe aumentato nell’arco di un decennio, perse la sua scommessa.
Guardando il problema dal punto di vista economico, Simon sosteneva che l’aumento del benessere e del progresso tecnologico avrebbe aumentato le risorse disponibili: benché queste possano essere fisicamente limitate, esse possono essere viste come economicamente infinite, in quanto le vecchie risorse vengono riciclate e si ritiene che il mercato stimoli la creazione di risorse alternative.
Già nel 1972, tuttavia era uscito l’importante studio “Rapporto sui limiti dello sviluppo” commissionato dal Club di Roma al MIT di Boston che, basandosi su simulazioni al computer attraverso il modello “world 3”, poteva predire per il XXI secolo scenari più preoccupanti.
In particolare, nello scenario 2 (su dieci previsti), crescita dell’inquinamento ed alterazioni climatiche si presentano “nella prima metà del XXI secolo” se si ipotizza un raddoppio delle risorse non rinnovabili in conseguenza di nuovi giacimenti non ancora scoperti.
Per gli anni nei quali è uscito, il rapporto del Club di Roma si può definire pioneristico, ma negli ultimi venti anni le previsioni demografiche dell’ ONU hanno fornito, anche attraverso le continue revisioni, un contesto più scientifico e stabile sulla materia.
Una novità importante è che nel 2016-2017 le nascite annue nel mondo sembrano essersi arrestate alla soglia dei 141 milioni e già nel 2025 potrebbero scendere a 140 milioni annui.
LA QUESTIONE AFRICANA
La popolazione continua a crescere perché si allunga la vita media.
Si tratta però di una media mondiale ed il baricentro della crescita demografica si è sposta ta dall’Asia all’Africa. Dei futuri 4 miliardi di nuovi abitanti del pianeta nel XXI secolo, ben 3 sono attesi in Africa.
Anche questo elemento dovrebbe essere materia di riflessione: in un continente diviso in 54 paesi non assisteremo certamente ad una replica della politica del figlio unico inaugurata da Deng Xiaoping nel 1979 (quando la Cina con il 7% della superficie mondiale deteneva il 25% della popolazione) e durata fino al 2013. Una scelta politica (con tutte le sue conseguenze) che ha contribuito in maniera decisiva a frenare la crescita demografica asiatica.
Accanto alle preoccupazioni ambientali, come la deforestazione e la fragilità delle aree costiere, in Africa si aggiungeranno preoccupazioni di tipo sanitario legate alla mortalità infantile ed all’invecchiamento della popolazioni, all’ urbanizzazione (quando le prime tre megalopoli mondiali nel 2100 saranno Lagos, Kinshasa e Dar es Salaam) e soprattutto al mercato del lavoro.
Proprio su quest’ultimo versante, un altro importante interrogativo dovrà trovare risposta: di qui al 2040 riuscirà l’Africa a produrre 30 milioni di posti di lavoro in più ogni anno per fronteggiare la crescita attesa della popolazione in età di lavoro ?
Dalla risposta a questo interrogativo, in un secolo che sarà dominato dalla crescente automazione e robotica, dipenderanno molte conseguenze.
Quando si parla dei flussi migratori verso l’Europa e della necessità di un “piano Marshall” per l’Africa, è difficile sfuggire alla sensazione che l’Unione Europea si riferisca agli aspetti contingenti di breve periodo ed anche al pur meritevole vertice di Abidjan del novembre 2017 sia mancato il respiro necessario.
Dagli anni novanta del secolo scorso a oggi, il mondo ha fatto registrare indubbi progressi nel contrastare malattie e povertà nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto nel settore materno infantile.
Ma la preoccupazione che questa tendenza positiva non sia mantenuta nel prossimo futuro emerge con forza dall’ultimo rapporto della Fondazione Gates, una delle principali ONG mondiali (“Goalkeepers 2017: the stories behind the data”). D’ora in poi il rapporto avrà cadenza annuale fino al 2030, proprio in parallelo all’avanzamento degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile. Alla base del rapporto, la convinzione che il mondo ricco sottovaluti la situazione e sopravvaluti le potenzialità dell’innovazione tecnologica nella soluzione dei problemi mondiali.
DINAMICHE DEMOGRAFICHE E POVERTÀ
Auguste Comte diceva che “la demografia è il nostro destino”, e l’appuntamento con il destino nel XXI secolo sarà inevitabilmente in Africa: nei prossimi decenni la distanza tra il tasso di fertilità africano e quello del resto del mondo si ridurrà, ma troppo lentamente.
Secondo le proiezioni ONU, per portare il tasso di fertilità dell’Africa sub-sahariana dall’attuale livello di 5 figli per donna al di sotto di 3, occorreranno quaranta anni, dal 2015 al 2055 (la stessa riduzione richiese poco più di venticinque anni in America Latina e solo venti anni in Asia, iniziando nei primi anni settanta del novecento).
La popolazione dell’Africa sub-sahariana, che oggi è di circa un miliardo di abitanti, dovrebbe raggiungere i due miliardi nel 2046 e i tre miliardi nel 2071.
La dinamica demografica rende molto difficili gli interventi nel contrasto della povertà: oggi il 9% della popolazione mondiale è considerato in estrema povertà (definita in un consumo inferiore a 1,90 dollari al giorno con la parità di potere d’acquisto del 2011).
Si tratta di un progresso notevole se consideriamo che nel 1990 questa quota raggiungeva il 35% della popolazione mondiale, ma il problema è che d’ora in avanti i progressi saranno molto più lenti.
Negli ultimi venticinque anni la povertà è diminuita principalmente in Asia e in America Latina. Nel 1990 circa due terzi dei cinesi vivevano in estrema povertà: le stime più recenti (2013) parlano di meno del 2%. Alla Cina si devono i due terzi del calo della povertà in quegli anni. Anche India, Indonesia e Vietnam hanno fatto registrare importanti progressi.
La situazione in Africa è diversa: oltre 400 milioni di africani vivono sotto la soglia di povertà estrema e ciò rappresenta oggi la metà del totale mondiale.
La tendenza al calo della povertà è contrastata dalla crescita demografica, anche se si ritiene che a metà del prossimo decennio la povertà estrema possa scendere al 6% e rimanere a quel livello dopo il 2030.
CONTRASTO ALLE MALATTIE E AIUTI ALLO SVILUPPO
L’altro elemento che desta le preoccupazioni del rapporto della Fondazione Gates è quello delle malattie infettive, per contrastare le quali si profilano difficoltà di finanziamento. Si tratta soprattutto dell’HIV, della malaria e delle venti malattie denominate “NTDs” (neglected tropical diseas, malattie tropicali trascurate).
La lotta contro l’HIV non si può considerare vinta in Africa, e questo rappresenta un rischio dal momento che nel 2030 l’Africa ospiterà la maggiore coorte giovanile di sempre: più di 280 milioni di giovani tra i 15 ed i 24 anni. Anche la malaria rischia una forte ripresa aiutata dal cambiamento climatico e in attesa che si sviluppino vaccini efficaci.
Il problema è aggravato dal fatto che le spese sanitarie dei Paesi africani rimangono deficitarie (mediamente meno del 3% del PIL) e l’aiuto internazionale rimane essenziale. Tuttavia, in questo momento, i venti populisti e xenofobi fanno sì che ben pochi Paesi raggiungano la quota fissata dall’ONU dello 0,70% del PIL per gli aiuti internazionali; Paesi fondamentali come USA, Gran Bretagna e Germania rischiano anzi di ridurre le loro quote, per incontrare il favore dell’opinione pubblica.
Alcuni Paesi (tra cui l’Italia) hanno visto aumentare gli aiuti internazionali negli ultimi anni, ma solo perché hanno computato in quella voce parte della spesa per l’accoglienza rifugiati. Il problema è che le opinioni pubbliche mal tollerano entrambe: il cane si morde la coda.
LE PROSPETTIVE
Il nesso tra crescita demografica, cambiamento climatico e migrazioni non è ancora stato colto ovunque in tutta la sua portata. Le conseguenze potrebbero essere gravi. Nel rapporto della Fondazione Gates lo scarto tra gli scenari ottimisti e quelli pessimisti si misura in milioni di vite umane: si calcola che un taglio del 10% dei finanziamenti mondiali nella lotta contro l’HIV potrebbe causare oltre cinque milioni di morti di qui al 2030.
C’è spazio per maggiore ottimismo solo se si considerano errate le previsioni demografiche o se si immagina la comparsa di nuovi farmaci.
Le politiche sul controllo delle nascite, sul cambiamento climatico, sul contrasto delle malattie e sulla lotta alla povertà mondiale richiedono un maggiore coordinamento anche e innanzitutto in sede ONU. Poterne monitorare i risultati anno dopo anno sarà un contributo importante per muovere le coscienze dell’opinione pubblica nei Paesi industrializzati.