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Erdoganomics

Perché è la geopolitica che rafforza Erdogan

L'intervento di Francesco Galietti, esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar

Tutti lo vogliono, tutti lo cercano: Erdogan è un Figaro della geopolitica contemporanea, capace di giostrare su tutti i tavoli che contano. Il leader turco è un consumato giocatore. Prima o poi, a uno a uno, tutti i protagonisti delle scene mondiali devono passare da lui e ottenere il suo beneplacito. Senza, fanno poca strada. È il caso di Svezia e Finlandia, il cui ingresso nella Nato era inizialmente osteggiato da Ankara. Analoga sorte è toccata a Mario Draghi, che dopo pochi giorni a Palazzo Chigi aveva definito Erdogan un dittatore, specificando però che si tratta di un dittatore ‘di cui si ha bisogno’. Draghi intuiva fin da subito che il confronto tra Occidente ed Eurasia sarebbe stato uno scontro tra democrazie da una parte e autoritarismi dall’altra, con alcune indispensabili eccezioni. Una di esse è rappresentata dalle petro-monarchie del Golfo, l’altra dalla Turchia, potente membro Nato sui generis.

Dalle nostre parti, già quando a Palazzo Chigi sedeva Silvio Berlusconi con la sua politica estera delle ‘pacche sulle spalle’, Erdogan faceva spesso capolino nei resoconti giornalistici romani. Di questi tempi, poi, la lista di dossier di comune interesse per Roma e Ankara è particolarmente corposa. Al primo posto viene la stabilizzazione della polveriera libica, per evitare ondate di migranti e mettere in sicurezza i pozzi ENI. Ma in Cirenaica si sono accomodati i russi, che di consentire all’Italia di ‘emanciparsi’ dalle forniture energetiche di Mosca non ne vogliono sapere. Intensi, e sempre guidati da interessi energetici, sono poi i dialoghi sul Levante, le cui acque sono ricche di giacimenti di gas. Israele ne ha fatto una priorità strategica, la Turchia vuole rimanere al centro della partita e l’Italia segue a sua volta con grande interesse gli sviluppi. Non è un caso se i vertici istituzionali israeliani hanno riallacciato i rapporti con la Turchia. Alla fine dello scorso anno, fu proprio Erdogan a spendersi in prima persona per il rilascio di turisti israeliani arrestati con accuse di spionaggio. L’intervento valse a Erdogan il plauso ufficiale del premier Bennett e del presidente Herzog. Tempo prima, a novembre, le cronache avevano registrato un incontro decisamente degno di nota ad Ankara tra Erdogan e il crown prince di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, a valle di ulteriori con il presidente egiziano Abdel-Fattah el-Sisi e con il potente National Security Adviser emiratino, Sheikh Tahnoun bin Zayed Al Nahyan.

Di Erdogan colpisce soprattutto l’abilità nel cambiare registro. Nei primi anni Duemila, Erdogan provava a capitalizzare soprattutto l’impetuosa crescita economica della Turchia, che in tanti volevano cavalcare a suon di commesse ed investimenti. Oggi, invece, Erdogan mette sul piatto della bilancia soprattutto il peso geopolitico del suo Paese. Il contesto, manco a dirlo, è cambiato radicalmente. Il sogno coltivato da Berlusconi di una sostanziale concordia tra Occidente ed Eurasia e di un riavvicinamento tra ex-nemici, è in frantumi. Erdogan e i suoi strateghi capiscono che a questa riattivazione dei campi di forza della geopolitica corrisponde una grande opportunità strategica per la Turchia. Ankara, infatti, sa che l’Occidente, impacciato com’è dal dibattito democratico interno, accusa grosse difficoltà. Proiettare forza fuori porta, in particolare, appare una fatica immane: tocca convincere opinioni pubbliche volubili, far votare interi parlamenti, fare i conti con continui inciampi. Ankara non ha di questi problemi. Che si tratti dei Balcani, della sponda Sud del Mediterraneo, del Golfo, del Levante o del Corno d’Africa, i militari turchi sono ovunque. Onnipresenti, poi, sono gli inafferrabili operativi del Millî İstihbarat Teşkilatı (MIT), l’intelligence turca. A sostenere questo rinnovato attivismo è anche un complesso reticolato di schemi culturali e alleanze. Il sostegno accordato alla Fratellanza Musulmana è molto noto. Da anni, poi, la Turchia ripropone con vigore la formula del panturanismo, l’idea di un’unione di tutti i popoli di etnia turca che si estende dai Balcani fino allo Xinjiang, in Cina, e che ha nella Turchia l’inevitabile punto di riferimento. Sarebbe un errore ritenere che tutto ciò sia frutto della sola figura di Erdogan e non invece di un deep state. I suoi membri sono cresciuti con gli occhi fissi sul mappamondo, e nulla lascia credere che questa tendenza possa cambiare in futuro.

 

 

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