La guerra in Medio Oriente ha un aspetto talmente globale che non ci si può permettere di pensare solo ad un cambio di leadership del capo di Hamas e Netanyahu perché il ritorno della guerra in Europa e con essa la crisi energetica dell’inflazione, dei tassi di interesse, delle disuguaglianze ha coinvolto pesantemente il conflitto israelo-palestinese modificato anche dalla nuova stagione trumpista segnata dalla guerra dei dazi, dal tentativo ancora in corso di delegittimare il pensiero liberal delle università americane e dalla minaccia ormai resasi evidente del ritiro della difesa americana dal sistema mondiale.
Tutto questo dopo l’orrido 7 ottobre del 2023 in cui – è bene riaffermarlo – l’aggredito è stato Israele e l’aggressore Hamas e – prima di questo inferno – l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia. E dietro a queste cosiddette leadership ci sono dei popoli in balia dei potenti, massacrati, spesso talmente indeboliti da non poter neanche avere la forza di reagire, strumentalizzati da chi il potere lo gestisce e da tribù di terroristi.
Dunque sostituire Zelensky e Putin o Abd al-Aziz al-Rantissi e Netanyahu richiede non solo tempo ma anche etica, visione, coerenza e una responsabilità intergenerazionale che ha la capacità di guardare al futuro e tiene conto dell’effetto che le scelte di oggi avranno sulle generazioni che verranno con il rischio e il coraggio di trasformare, innovare, cambiare paradigma in modo che questa missione diventi parte integrante del valore dei popoli coinvolti.
Un progetto politico, sociale ed economico equilibrato e non di un singolo ma di una uniformità di donne e uomini motivati a innovare le regole in una situazione sociale assolutamente diversa, significa rafforzare e trasmettere un messaggio potente che favorisce la ricerca di una cultura di appartenenza, della costruzione, certo delicata e complicata, di una causa nobile capace di affrontare le sfide per il bene sociale ed economico del paese riconoscendo il valore di un impegno che contribuisce al progresso umano.
Per quel che mi riguarda difendere gli israeliani e gli ebrei e gli ucraini nel mondo significa difendere noi stessi, l’occidente e i nostri valori e spesso questi popoli sono da soli e da soli combattono per esistere.
Dunque c’è bisogno – anche e soprattutto in Italia – prima di pensare a sostituire le leadership, denunciare e confrontarsi sui rischi che corrono le democrazie liberali e le ambiguità delle loro leadership politiche nel sostenere sia Israele che l’Ucraina, non lasciandoli da soli ad affrontare i loro nemici, nemici delle libertà delle donne, dei bambini, della dignità delle persone, dei diritti civili.
Per fare un esempio pratico come componente del CIDU (Comitato interministeriale Diritti Umani) è necessario lealmente responsabilizzarsi come Paese.
In relazione alla richiesta di contributi con la quale l’Alto commissario per i diritti Umani sulla base della Risoluzione del Consiglio n.58/29 “Combattere intolleranza, stereotipi negativi, stigmatizzazione, discriminazione, incitamento alla violenza contro le persone, sulla base della religione o del credo” il Comitato invita gli stati Membri e dunque anche l’Italia a fornire elementi in vista della predisposizione di un rapporto che sarà presentato in occasione della 61ma sessione del CIDU (febbraio-aprile 2026).
Questa occasione ci permetterà di assumerci delle responsabilità concrete e ci misureremo sulla volontà di difendere concretamente i nostri valori. E questa è oggi, più utile che mai, anche l’occasione per divulgare coerentemente come ci siamo impegnati con la Strategia per combattere l’antisemitismo che è uno strumento al quale abbiamo lavorato in un Comitato che si è trovato a sviluppare in un momento tragico una missione che ha nelle università nelle scuole – tra una società spesso invasa da ideologie antistoriche – una veemenza riemersa dai periodi più bui della storia e che ci chiama a contrastare con buonsenso e sulla base di un progetto condiviso questo abominio con la forza della ragione e del coraggio, senza paura.