Lo temevano, ma lo vedono arrivare soltanto adesso che una flotta degli Stati Uniti guidata dall’impressionante portaerei Gerald Ford fa rotta sul mar dei Caraibi venezuelano e 4mila marines già l’attendono a Santo Domingo esercitandosi all’assalto. Con esatto tempismo i governatori dell’ex presidente Jair Bolsonaro (condannato a 27 anni per il tentato colpo di stato del gennaio 2023) hanno scatenato una sanguinosa repressione nelle favelas di Rio de Janeiro infestate dalla criminalità. In coincidenza con minacce e azioni di Donald Trump. L’uomo che con incomparabile determinazione aspira, anzi pretende ad alta voce al Nobel per la pace, configura ogni giorno manovre di guerra (“Se vuoi la pace, prepara la guerra” è un paradosso divenuto ormai refrain quotidiano). Sostenendole, però, così come l’intera strategia fondata fin dal momento in cui è rientrato alla Casa Bianca sulla sua straordinaria potenza economica e militare, con una calcolata tattica politica. Che seleziona, mira e colpisce i punti deboli del fronte avversario, invocandoli a propria giustificazione. Ad ascoltarlo, egli non attacca, si difende: ne sarebbe costretto.
Nicolàs Maduro e Lula da Silva sono vistosamente diversi uno dall’altro, non hanno mai simpatizzato e ormai apertamente si detestano. Solo in uno sforzo di buona volontà, nella speranza di risolvere un grave problema continentale e acquisirne merito, Lula si era fatto avanti per invitare il collega venezuelano a riconoscere la sconfitta nelle elezioni presidenziali di metà 2024 viziate da vistosi imbrogli, offrendogli in cambio una serie di garanzie. Per tutta risposta aveva ricevuto un offeso rifiuto (come osava intromettersi, per riconoscere inoltre la vittoria del candidato della destra: tradiva l’indipendenza latinoamericana, facendosi complice d’una congiura!). Una reazione non inattesa, del resto: stante il personaggio e la situazione interna del paese caraibico, in piena crisi economica e istituzionale (8 milioni di emigrati su meno di 30 d’abitanti, negli ultimi 10 anni). Nondimeno ancora sotto controllo della maggioranza dei comandi militari in combutta con i vertici politici eredi del sistema di potere ereditato dal populismo chavista. A Washington differenziano esclusivamente i modi di attaccarli. Frontalmente l’uno, per mezzo dell’opposizione bolsonarista l’altro.
L’interventismo degli Stati Uniti nel subcontinente americano è storia. James Monroe, giusto due secoli addietro, ne ha fatto persino una “dottrina”. La denominata “crisi dei missili” con la Cuba castrista e l’URSS è il massimo thrilling dell’equilibrio nucleare. Golpes e dittature militari, avallati o apertamente sostenuti, sono innumerevoli e tutti sanguinosi. Trump sta attuando i suoi colpi di mano rinominandoli per mezzo di una rivoluzione semantica ormai largamente avviata, al fine di dare loro una legittimazione giuridica. I narcotici, il cui uso sacralizzato per garantirne il controllo sociale risale all’antichità, in America Latina originano dalle foglie di coca (da cui la cocaina) e dai fiori d’amapola (morfina ed eroina). Questi ultimi molto romanticizzati nei tempi della modernità industriale. Risuonano ancora sui media digitali le note sognanti della celeberrima canzone Amapola, del primo Novecento, ripresa poi da Ennio Morricone per la colonna sonora del film di Sergio Leone “C’era una volta l’America”, con Robert De Niro e l’incantevole Jennifer Connely, giovanissima. Nello stupore tossico c’è un significativo dato culturale. E’ tra le violenze del grande latifondo e le prime ribellioni armate dei braccianti, a partire dal 1950 (soprattutto in Colombia), con la guerra fredda sullo sfondo, che le droghe diventano coltivazione e commercio diffusi, svanisce ogni languore nostalgico, si afferma la locuzione narcotraffico.
Nell’effervescenza creata da crescita, globalizzazione e consumi di massa, soprattutto nelle aree ad economia economicamente avanzata d’ogni continente, anche le droghe si sono fatte spazio crescente negli angoli oscuri del mercato. Per gli ordinamenti giuridici restano proibite. Ma la comune sensibilità non ne condanna sempre e comunque l’uso. Né in proposito si avvertono differenze rilevanti tra i diversi ambienti sociali. Vengono prodotte a bassissimo costo in Bolivia, Equador, Messico, Colombia, Panamà. Per distribuirle con utili vertiginosi nella stessa America Latina e soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, dove fumo e sniffo divengono un modo d’intrattenersi nel fine-settimana. La criminalità organizzata s’impadronisce del colossale lucro, calcolato oggi in centinaia di miliardi di euro l’anno. Capitali mostruosi che attraverso il riciclaggio contaminano la politica e l’economia globali. In Brasile, quinto paese (215 milioni di abitanti) e decima economia (oltre 2mila miliardi di USD) del mondo, non si limitano a dominare le favelas (971 solo a Rio), spesso ne gestiscono come imprenditori di fatto anche i servizi: da Internet a elettricità, acqua, gas e dove ci sono le reti fognanti.
Non per questo il Brasile è in mano ai narcotrafficanti; e sebbene verosimili, le notizie di ben più estesi e diretti coinvolgimenti di funzionari e familiari di Nicolàs Maduro nel commercio di stupefacenti, neppure il suo Venezuela può essere sbrigativamente liquidato come narco-stato (come fa Trump). In ogni caso nessuno è autorizzato a violarne la sovranità. Sebbene non siano certo sufficienti ad assolverlo dai sospetti l’accusa di Maduro agli Stati Uniti di volersi in realtà impadronire dell’ambito petrolio venezuelano. Non a caso Trump parla adesso di narco-terrorismo, un neologismo che nelle sue intenzioni dovrebbe cambiare le regole del gioco. E c’è chi ne vede un’anticipazione nell’intervento senza precedenti della polizia nelle popolose favelas Alemao e Penha, ordinato la scorsa settimana dal governatore bolsonarista dello stato di Rio. Gli scontri a fuoco con l’uso di droni, armi automatiche e bombe teleguidate con i narcos del Comando Vermelho hanno lasciato 121 morti, tra cui 4 agenti e decine d’incolpevoli abitanti. Segno dei rischi che attendono le elezioni presidenziali dell’anno prossimo in Brasile. Ma per il Venezuela spazi politici e tempi appaiono molto più ristretti.







