skip to Main Content

Schiavitù

Perché anche nel 2023 tollereremo (ancora) la schiavitù

La schiavitù non è solo quella con le catene o che si legge nei libri di scuola. È uno status che le élite attribuiscono ancora oggi a circa 50 milioni di persone. In senso moderno è povertà, lavori forzati, violenza psicologica e sessuale ma potremmo eliminarla, se solo volessimo...

 

Caro Direttore,

Come da tradizione le scrivo un pensiero di fine anno stavolta prendendo spunto da un libro di James C. Scott, professore di Scienze politiche della Yale University, dal titolo Le origini della civiltà. Una controstoria (Einaudi 2018).

Secondo Scott, a partire dalle prime civiltà fino ad arrivare alle società di oggi si può registrare un continuo assorbimento di schiavi al livello più basso dell’ordine sociale. Man mano che i primi schiavi e i loro discendenti venivano incorporati nella società, i ranghi inferiori venivano costantemente riforniti di nuovi prigionieri, rafforzando ulteriormente la linea tra sudditi liberi e schiavi. La teoria del Professore è che la costruzione delle prime civiltà umane (Sumeri, Greci, Romani, etc.) sia stata resa possibile principalmente grazie al lavoro degli schiavi, che “erano impiegati come una sorta di proletariato usa e getta per i lavori più duri e pericolosi: minatori di argento, cavatori di pietre, boscaioli, rematori, etc”. Per ‘schiavi’ Scott intende esseri umani addomesticati, fatti prigionieri di uno status, con le catene o senza. Il numero degli schiavi utilizzati dalle cosiddette élite era enorme già all’epoca, almeno in proporzione alla popolazione della Terra e anche la successiva creazione dello Stato moderno, secondo l’accademico, è stata materialmente resa possibile dagli schiavi.

Si arriva a riflettere sulle società di oggi, anche quelle considerate più sviluppate, le cosiddette democratiche, e si nota che anche queste continuano a fondarsi su un sistema che riduce in schiavitù moltissime persone, destinandole inesorabilmente a sacrificare la loro vita per poter svolgere i lavori più faticosi e pericolosi, a beneficio degli altri.  A supporto di questa idea si trovano purtroppo dati anche al di fuori del libro di Scott. Dati che certificano l’esistenza di persistenti e anzi nuove forme di schiavitù contemporanea: un fenomeno di sfruttamento multiforme che riguarderà anche nel 2023 tutti i continenti del mondo; una piaga che non risparmia nessun paese e quasi nessun settore.

Secondo il Rapporto Global estimates of modern slavery: Forced labour and forced marriage (Stime globali della schiavitù moderna: Lavoro forzato e matrimonio forzato) diffuso dalla International Labour Organization (ILO), “nel 2021 erano 50 milioni le persone che vivevano in condizioni di schiavitù moderna. Di queste persone, 28 milioni erano costrette al lavoro forzato e 22 milioni erano costrette in matrimonio forzato”. Il numero di persone in forme di schiavitù moderna è aumentato significativamente negli ultimi cinque anni. Nel 2021 le persone in schiavitù erano 10 milioni in più rispetto a quanto registrato dalle stime globali del 2016. La schiavitù è presente in quasi tutti i paesi del mondo e non conosce frontiere etniche, culturali o religiose. Donne e bambini sono maggiormente vulnerabili. Più della metà (52 per cento) del lavoro forzato e un quarto di tutti i matrimoni forzati si concentrano nei paesi a reddito medio-alto o alto.

Anche il Rapporto 2022 dedicato alle donne gravemente sfruttate, curato dall’Associazione Slaves No More, non racconta di casi eccezionali, ma di una realtà sommersa, diffusa e strutturale che riguarda tutti i paesi del mondo.

La schiavitù moderna è povertà, violenza sessuale, lavori forzati, ma anche disuguaglianze di reddito, di welfare, diversi tipi di vessazioni fisiche e psicologiche, in famiglia e sul posto di lavoro.

In sostanza, passano i secoli ma sembra replicarsi la divisione tra padroni e schiavi, tra vincitori e vinti, tra sfruttatori e sfruttati, tra chi lavora per gli altri e chi fa lavorare gli altri per sé.

Perché tolleriamo ancora le ingiustizie alla base del nostro sistema economico e sociale? Circa dieci anni fa Amartya Sen scriveva sulla rivista Prospect che “l’incidenza della povertà varia a seconda dei paesi, ma nessuno Stato è avulso da questa piaga” – e si chiedeva: come è possibile che le persone più o meno benestanti riescano a scendere a patti con la orripilante sofferenza di chi si trova sotto di loro? L’economista indiano indicava tre cause possibili: la disinformazione delle persone; il realismo pessimista di chi pensa che le disuguaglianze non possano essere rimosse; l’egoismo di chi vede l’uomo come un animale egocentrico attento solo al proprio benessere. Secondo Sen chi crede che le disuguaglianze non si possano rimuovere utilizza più o meno volontariamente questa scusa perché è ignorante, così come chi crede nell’egoismo come motore delle nostre società forse si è limitato a leggere solo poche frasi degli scritti di Adam Smith, ignorando il resto della trattazione e la complessità teorica suggerita dall’autore dell’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776).

Sen indica una via di salvezza attraverso la cultura, l’informazione e la conoscenza della Storia. La sua conclusione è così un buon auspicio per gli esseri umani anche nel 2023: “Se la tolleranza dell’intollerabile deriva in ultima istanza dalla disinformazione piuttosto che dall’egoismo umano, allora possiamo permetterci di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, capiamo bene che c’è ancora molto da lavorare”.

Back To Top