Josep Borrell, 74 anni, socialista spagnolo, è l’Alto rappresentate dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Intervistato da Federico Fubini per il Corriere della sera sulla ritirata Usa da Kabul, ha scoperto che, ora, l’Europa dovrà pensare alla sicurezza con le proprie forze. Per questo ha proposto di istituire «una forza di primo intervento degli Stati Ue, forte di 5mila soldati, per tutelare i nostri interessi».
Non è chiaro se Borrell ne abbia già discusso con i leader degli Stati Ue e con i vertici della Commissione Ue, oppure se si tratti solo di una sua idea personale, destinata a restare tale. In fondo, nonostante il nome altisonante dell’incarico, gli Alti rappresentanti non hanno mai deciso la politica estera e di sicurezza dell’Ue, visto che ogni Stato membro continua a gestirla in proprio.
Nella stessa intervista a piena pagina, parlando di sicurezza, Borrell tocca numerosi altri temi di attualità, soprattutto in materia di migranti e rifugiati, e – udite, udite – arriva a giustificare i muri eretti da Grecia e Lituania contro i clandestini, barriere che «non vanno contro la legge europea», perché «si parla del confine esterno dell’Unione» e «le barriere sono lì per proteggere contro le violazioni dei limiti territoriali di un Paese». Una distinzione originale, mai udita finora, che sembra giustificare, senza dirlo apertamente, anche il muro eretto dalla Spagna al confine con il Marocco. Non una parola, invece, sulla Libia, come se questo paese del Nord Africa, con la sua instabilità politica e l’incessante fiume di clandestini verso l’Italia, non costituisca da almeno dieci anni un problema serio per la sicurezza dell’Europa.
A ben vedere, per l’Alto commissario Borrell, un buon motivo per non dimenticare la Libia c’era, eccome se c’era. Basta rileggere il comunicato finale del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo del 25 giugno, in cui l’Ue ribadiva il proprio impegno a favore della stabilizzazione politica della Libia sotto gli auspici delle Nazioni Unite, comprese le elezioni politiche, da tenersi il 24 dicembre prossimo. Un impegno che, appena due mesi dopo, sembra completamente dimenticato in quel di Bruxelles, tanto che le elezioni del 24 dicembre, annunciate come una tappa fondamentale del processo di messa in sicurezza della Libia, sono talmente in alto mare che nessuno è in grado di prevedere di quanto saranno rinviate.
In proposito, il sito InsideOver, per la penna di Alessandro Scipione, con una accurata ricognizione sul campo, elenca i motivi del quasi certo rinvio elettorale. Attualmente, in Libia c’è un governo provvisorio, guidato da Adulami Daibaba, imprenditore di Misurata, «accusato di essere arrivato nella stanza dei bottoni comprando voti ed elargendo favori, accuse sempre respinte dal diretto interessato». In base alle regole stabilite dal Foro di dialogo politico (composto da 74 membri), che ha fissato la data delle elezioni e nominato le autorità ad interim, il premier Daibaba non potrebbe candidarsi per il voto del 24 dicembre. Il che basta e avanza per spiegare come mai Daibaba non stia muovendo un dito per organizzare elezioni in seguito alle quali dovrebbe abbandonare il governo, restando per di più escluso anche dal futuro parlamento libico.
La stessa regola, a dir poco bizzarra, vale per altri politici di primo piano, tutti fermamente impegnati a boicottare elezioni in cui non potrebbero candidarsi. Come Aguila Saleh, presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, eletta nel 2014 con un’affluenza di appena il 18%. Idem per Khaled al-Mishri, presidente dell’Alto consiglio di Tripoli, organo consultivo istituito nel 2015, in cui sono confluiti i membri del Congresso generale nazionale. Quanto al generale Khalifa Haftar, benché sconfitto sul campo dai soldati turchi di Recep Tayyp Erdogan, ora vorrebbe buttarsi in politica e candidarsi alla presidenza, ma non è chiaro se possa farlo, visti i numerosi divieti delle regole elettorali. Stesso discorso per il suo rivale, Fathi Bashaga, ex ministro dell’Interno a Tripoli, uscito vittorioso dalla guerra con Haftar, grazie all’aiuto turco.
Il 25 agosto l’Agenzia Nova ha riferito che l’inviato speciale dell’Onu per la Libia, Jan Kubis, diplomatico slovacco, ha cercato di fare il punto sulla road map elettorale, incontrando le principali parti politiche libiche. Risultato: ha dovuto prendere atto che il rimpallo di accuse tra i personaggi più in vista ha impedito finora che la Camera dei rappresentanti (il nuovo parlamento con sede a Tobruk) emanasse la nuova legge elettorale.
Di conseguenza, restano da chiarite alcuni punti chiave delle prossime elezioni: si voterà solo per il parlamento, oppure anche per il presidente? Con quali criteri di eleggibilità? Disco verde anche per i militari? Voto proporzionale, maggioritario, o misto? Che nodi simili possano essere risolti in tempo per tenere le elezioni il 24 dicembre, 70.mo anniversario dell’indipendenza nazionale, non lo crede più nessuno. Di conseguenza, il premier Daibaba e gli altri leader che già godono di alte cariche istituzionali resterebbero tutti al loro posto, per un interim la cui durata resta difficile da calcolare.
Non solo: affossando la road map indicata dall’Onu e appoggiata dal Consiglio europeo in giugno, si rafforzerebbe la spartizione della Libia tra i paesi che sono intervenuti militarmente nella guerra tra l’ex premier Fayez al Serraj e Haftar, paesi che già oggi esercitano la maggiore influenza nella Libia ovest (Turchia) e nella Libia est (Russia ed Emirati Arabi Uniti). Il tutto a danno soprattutto dell’Italia, con tanti saluti all’Alto commissario Ue, Borrell, che sulla sicurezza e la Libia non ha saputo dire una sola parola.