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Infodemia

Pandemia o Ucraina, è sempre infodemia?

L'analisi di Marco Ferrazzoli, docente di Teoria e tecnica della comunicazione della conoscenza presso l'Università di Roma Tor Vergata

Un confronto tra la pandemia di Covid-19 e la situazione in Ucraina potrebbe apparire un mero esercizio retorico, ma può anche suggerire qualche spunto utile a riflettere su dinamiche che stanno pesantemente caratterizzando la nostra vita. Entrambe, infatti, sono vissute nell’immaginario collettivo come crisi improvvise, cioè come rotture di continuità, quando invece rimandano a processi in atto da molto tempo.

Nel caso delle pandemie, quella da Sars-Cov-2 non è stata che l’ultima di una serie con episodi quasi ciclici, in massima parte ignorati dal mondo “occidentale” poiché si erano limitati a lambirci, provocando effetti di contagio e decessi relativamente contenuti, per esempio nei casi di Ebola e Mers. L’“asiatica” del 1957 venne addirittura definita la “gentile influenza”. Sars e influenza “aviaria”, nel 2003, hanno invece sortito delle psicosi persino eccessive rispetto al reale pericolo, mentre l’Aids è stata oggetto di una narrazione con toni molto diversi: dallo stigma del “castigo” per drogati e omosessuali fino all’empatico e pluripremiato film “Philadelphia”.

Anche le tensioni internazionali hanno avuto un riverbero nei nostri atteggiamenti differenziato e non sempre proporzionato alla rilevanza o alla distanza geografica. La crisi del Donbass è figlia di un contenzioso russo-ucraino che data per lo meno dal 2014, che ha investito anche la Crimea e che a sua volta discende dalla politica espansionista sovietica. Del quale, probabilmente, nella nostra memoria resta solo il vago ricordo della perestroika di Michail Gorbaciov e della “caduta del muro” a Berlino. Se adesso prestiamo a quest’area un’attenzione maggiore è forse a causa delle indirette implicazioni sulla crisi energetica di cui famiglie, imprese e trasporti pagano il salatissimo conto. Così come, nel caso delle “primavere arabe” che hanno agitato il Nordafrica tra 2010 e 2012, ci eravamo preoccupati per le conseguenze sui flussi migratori mediterranei. Se questo è comprensibile, si spiega però meno la disattenzione che abbiamo sempre prestato alle rotte migratorie balcaniche e continentali, oppure alla contesa ispano-marocchina.

Covid-19 e contesa tra Russia e Ucraina ci sono apparse delle “novità” per smemoratezza, per l’errata impressione che guerre e pandemie siano retaggi del passato storico, per ignoranza verso la scienza e la politica estera. Nel ‘900 si sono avvicendate le generazioni che avevano vissuto la Spagnola e la poliomielite, i due conflitti mondiali, la “guerra fredda”. Per questo la sensibilità verso queste conflitti e contagi, così come per la “fame nel mondo”, era tanto diffusa. Con il tempo, però, si è progressivamente rafforzata la nostra presunzione di essere esenti da queste grandi sciagure, in quanto fortunati appartenenti alla minoranza più benestante del pianeta.

A questo equivoco che le “progressive sorti” potessero debellare dal nostro orizzonte personale e planetario certe calamità ha concorso forse anche un fraintendimento narrativo. La trasmissione letteraria e saggistica ha progressivamente storicizzato e metaforizzato conflitti e malattie, ingenerando un’illusoria vaccinazione culturale, anziché avvertirci del loro pericolo sempre attuale. In sostanza, che la percezione per certe tragedie oggi sia meno viva è inevitabile, ma è profondamente errata l’idea che esse sorgano dal nulla, avvalorata dall’immediato sovraccarico comunicativo con cui ci vengono proposte: si pensi all’onnipresenza del Coronavirus sui vecchi e nuovi media, da oltre due anni, e a quella molto più recente della crisi in Donbass. Questa tendenza al “tormentone” riguarda un po’ tutti i fatti di cronaca, dal Festival di Sanremo all’elezione del Presidente della Repubblica, e determina, data anche la maggiore disponibilità di reti informative, quella che viene definita “infodemia”.

In un libro che abbiamo scritto con Giovanni Maga analizziamo l’overload informativo relativo a Covid-19, che la stessa Oms ha chiesto di considerare unitamente agli aspetti sanitari con i quali concorre. Ma le nostre valutazioni sulle crisi sanitarie possono essere probabilmente trasferite a quelle in politica estera, nel senso che entrambe queste aree della realtà richiedono ormai una cittadinanza più “consapevole”. Le moderne società globali si caratterizzano soprattutto come società della comunicazione e gestire i loro flussi informativi è molto difficile. Quest’evoluzione richiede un adattamento non banale, la capacità di discriminare l’autorevolezza delle fonti e la conoscenza basilare di ambiti, come la ricerca scientifica e la geo-politica, che non possiamo più ignorare, poiché la loro incidenza è ormai pervasiva. Lo sforzo dev’essere pertanto comune: gli operatori dei media hanno il dovere di gerarchizzare e inquadrare meglio le notizie, i destinatari finali quello di seguire un’alfabetizzazione permanente che cominci con la formazione scolastica, gli esperti e i ricercatori quello di aiutare il sistema a uscire dalla logica dell’“emergenza”.

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