Skip to content

Nordio

Nordio, le carceri e i suicidi

Fatti e polemiche sui suicidi in carcere e sulle mosse del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. I Graffi di Damato

Per quanto insignito dall’Unità di Piero Sansonetti, forse con troppa fretta, di una disonorevole “medaglia d’oro del più cinico”, il ministro della Giustizia Carlo Nordio è corso in visita – “non d’ispezione”, ha precisato – nel carcere di Torino dove sono appena morte due detenute. Una si è impiccata allungando la lista di quelli che la Repubblica ha definito “suicidi di Stato” e l’altra si è lasciata morire – o, peggio, è stata lasciata morire – di fame e di sete in una protesta contro la detenzione ritenuta ingiusta e i rifiuti di farla incontrare col figlio.

Nell’annunciare, proporre e quant’altro un “piano – ha titolato Il Giornale – per svuotare le carceri”, creandone di nuove nelle caserme dismesse, differenziando le detenzioni secondo i reati commessi o contestati o le condizioni degli interessati, e ricorrendo sempre di più a “forme alternative” alla custodia in gabbia, il guardasigilli ha detto che “purtroppo il suicidio in carcere è un fardello di dolore che affligge tutto il mondo ed è spesso imprevedibile. Accade per ragioni imprescrutabili. Da pubblico ministero – ha voluto ricordare – ne ho trattati tanti e non esiste mistero più insondabile della mente umana quando uno cerca soluzioni così estreme”.

Pur con tutta la comprensione dovuta a un ministro in visita non ispettiva  -ripeto – e rispettoso dei magistrati che stanno indagando sull’accaduto, Nordio converrà che c’è una grande, troppo grande e inquietante distinzione tra chi s’impicca e chi si lascia – o, ripeto – è lasciato morire in un lungo sciopero della fame e della sete. In questi casi il sovraffollamento carcerario e la carenza di personale non bastano mai a spiegare del tutto le morti, o a liquidarle per suicidi. C’è un problema di sensibilità che è anche problema di moralità. E riguarda purtroppo non solo il ministro della Giustizia, i suoi collaboratori, le guardie carcerarie e i loro superiori, ma anche i giornali. E quindi noi giornalisti, che passiamo dalla vigilanza, chiamiamola così, esasperata della già ricordata Unità con le medaglie d’oro, d’argento e d’altro ancora da assegnare sarcasticamente al malcapitato di turno, ad una insopportabile indifferenza, o quasi.

Segnalo la strana compagnia dei giornali sulle cui prime pagine di oggi non ho trovato un rigo – dico un rigo – sulle morti in carcere a Torino, e altrove, e sulla visita di Nordio: da Libero a Domani, che non sono certamente in sintonia politica, dalla Verità al Fatto Quotidiano, il cui direttore Marco Travaglio ha preferito rovesciare la sua attenzione e disapprovazione sui “cognati d’Italia”. Tutti accomunati  -questi giornali, non i cognati – dal fascino delle manette e dalla smania, in genere, di vederle scattare ai polsi altrui, e poi da una sostanziale indifferenza -ripeto- al problema di come si viva, non si viva, anzi si muoia tra le sbarre. Non è solo fantasia o vuota protesta quel “Paese in gabbia”, appunto, gridato nel titolo di apertura dell’Identità di Tommaso Cerno, già parlamentare.

Torna su