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Musk sarà l’anti Trump

Gli ultimi scazzi fra Musk e Trump. Le vere mire del fondatore di Tesla e di Space X. Le ritorsioni evocate da Trump. Estratto da Appunti di Stefano Feltri.

Il secondo tempo della partita tra Donald Trump e Elon Musk si annuncia di gran lunga più interessante del primo. Quello che sta succedendo è in fondo molto semplice e proviamo a riassumerlo così: Elon Musk, non contento del tipo di influenza che esercitava sulla Casa Bianca, ha lasciato il suo incarico nel governo, e adesso sta passando all’opposizione: ha lanciato America Party.

Trump prima ha provato a mantenere buoni rapporti, ma ora usa l’ultima arma rimasta: il ricatto, la minaccia di togliere finanziamenti e commesse governative alle aziende di Musk se lui non smette di attaccare le politiche dell’amministrazione.

Questa vicenda si può leggere come uno scontro di personalità esagerate, si può commentare come la fine di una bromance, la virile amicizia tra veri uomini, come una questione psicoanalitica di rapporti irrisolti padre-figlio. A me, però, sembra un’altra storia.

Nel rapporto tra Musk e Trump si misura la tensione di potere e legittimità che permea questo momento storico, non è lo scontro tra due persone, ma tra tecnologia e politica, tra l’idea che debbano essere gli ingegneri informatici o i demagoghi a guidare le masse. E se la legittimità del potere esecutivo deriva dall’efficienza o dal consenso.

Nella prima fase di questa seconda amministrazione Trump, tecnologia e politica hanno provato a convivere, e questo non si è rivelato possibile, perché sono destinate a collidere, una delle due deve prevalere.

Nell’immediato, Trump sembrava aver affermato il primato della politica: a fine maggio ha ringraziato Musk, gli ha dato una chiave simbolica della Casa Bianca, e lo ha congedato dal DOGE, il dipartimento per l’efficienza governativa che sostiene di aver tagliato 175 miliardi di dollari.

Sforzo inutile, come ha ricordato Musk, perché nel frattempo Trump preparava una legge di Bilancio che aumenta il debito federale di almeno 2400 miliardi in dieci anni, che fanno 240 miliardi all’anno.

Nell’immediato, Musk ha reagito come un amante abbandonato, ha insultato la legge di Bilancio di Trump, ha perfino evocato legami occulti – al di là di quelli già noti – tra il presidente e il pedofilo Jeffrey Epstein, al centro di ogni teoria complottista delle destre online.

Trump prima ha ostentato superiorità, poi ha fatto minacciose allusioni ai sussidi governativi alle aziende di Musk, e ha mandato un avvertimento, licenziando il capo della NASA scelto proprio da Musk, Jared Isaacman.

Non è finita lì.

Adesso che la legge di Bilancio trumpiana – il Big Beautiful Bill – è passata anche al Senato, Musk ha portato lo scontro su un nuovo livello, e così sta facendo Trump. Ne resterà uno solo. Tutti danno per scontato che sia il presidente, non è forse l’uomo più potente del mondo?

E se invece alla fine restasse Musk, che conclusioni dovremmo trarne? Che la svolta autoritaria fondata sul populismo che Trump ha tentato ha avuto come sbocco un golpe tecnologico?

Per valutare la minaccia di Musk e i rischi che comporta per Trump bisogna osservare, come sempre, il feed di X, cioè la cascata di commenti, provocazioni, suggestioni che Musk riversa sul social che ha comprato nel 2022 a tutte le ore, soprattutto di notte.

Soprattutto, quasi certamente, quando ha le percezioni alterate e le inibizioni ridotte da qualche supporto chimico del quale – dice il New York Times – abusa spesso.

Mentre scrivo, il tweet fissato in cima al suo profilo è il sondaggio lanciato all’indomani dell’uscita dal DOGE, il 5 giugno, sulla necessità di un nuovo partito negli Stati Uniti per rappresentare “l’80 per cento che sta nel mezzo”.

A quel sondaggio, ora Musk ha aggiunto il suo commento “VOX POPULI VOX DEI”. Come ho ricostruito nel mio libro su Musk Il nemico, uscito da poco per Utet, l’introduzione del plebiscito è stata una delle innovazioni della svolta del social network: dalla Repubblica di Twitter – orizzontale, aperta, democratica – all’impero di X, dominato dal suo padrone e signore Elon Musk.

Ovviamente, nessun sondaggio social può vincolare l’uomo più ricco del mondo, ma può darli – come i plebisciti nei regimi autoritari – una specie di legittimazione a fare qualcosa che ha già deciso.

Come a fine 2022 quando, dopo aver licenziato gran parte dei dipendenti e distrutto il modello di business di Twitter con polemiche e scelte sbagliate, Musk ha chiesto ai suoi follower se doveva dimettersi da amministratore delegato dell’azienda e lasciar spazio a un manager a tempo pieno.

Gli utenti hanno votato a favore delle dimissioni, lui ha commentato “VOX POPULI VOX DEI” e ha chiamato a capo di X Linda Yaccarino come nuova amministratrice delegata. Stessa dinamica quando ha fatto votare gli utenti sul ritorno di Trump su Twitter, dopo il bando seguito al tentato colpo di Stato del 2021.

Oggi Musk sa perfettamente che rievocare quel commento – vox populi, vox dei – indica la serietà della sua minaccia: l’ho fatto una volta e posso rifarlo, non sottovalutatemi.

Anche il resto del suo feed è pieno di segnali in quel senso, come la condivisione di un discorso di Ron Paul sui rischi del deficit e del debito a livello federale.

Ron Paul ha corso in tre elezioni presidenziali – 1988, 2008 e 2012 – alla guida di un partito Libertario e poi come indipendente dopo aver tentato la nomination per i Repubblicani.

Non è mai stato rilevante nell’impatto, ma soprattutto le ultime due volte ha contribuito a legittimare quei temi di protesta interna al mondo Repubblicano che poi hanno favorito prima il movimento dei Tea Parties e poi quello MAGA, cioè Make America Great Again, che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca.

Musk pensa e comunica per meme, non per concetti articolati, cioè condensa in immagini e testi messaggi che vanno dedotti, senza essere mai esplicitati.

Il ricorso a Ron Paul significa questo: un ricco signore del Texas qualunque è stato capace di spostare l’agenda, i temi e alla fine l’identità stessa del partito Repubblicano, figuratevi cosa posso fare io se mi applico.

Il primo passo è iniziare a smantellare l’attuale esperienza trumpiana che per Musk non sembra essere più recuperabile, magari si possono minimizzare i danni ma non trovare nuovi spunti di utilità.

E così, poche settimane dopo aver annunciato la sua volontà di smetterla con i finanziamenti alla politica, Musk annuncia il nuovo obiettivo delle sue attività di finanziamento elettorale: far vincere i nemici di Trump, fargli perdere il consenso di cui ha bisogno al Congresso in modo da paralizzare l’azione della Casa Bianca nella seconda metà della legislatura.

Tutto questo si deduce da una parola di due lettere “me”. E’ il commento di Musk a un tweet di un attivista libertario che dichiara di aver donato soldi a sostegno della campagna per la riconferma del deputato del Kentucky Thomas Messie e chiede chi sarà il prossimo a fare una donazione. Musk risponde: “Io”.

Questa è una piccola bomba politica: come ha raccontato il sito Axios, Trump ha deciso di usare il suo imponente apparato di finanziamento e propaganda elettorale per silurare il congressman che lo ha criticato sugli attacchi all’Iran e ha votato contro la legge di Bilancio, il Big Beautiful Bill.

Gli uomini di Trump stanno creando un super PAC, cioè un fondo di finanziamenti, per sconfiggere il deputato Messie alle primarie Repubblicane la prossima primavera, sostituirlo con un candidato di provata fedeltà trumpiana e fargli vincere le elezioni in autunno.

Trump può contare su 500 milioni di dollari complessivi, ma Elon Musk ha molti più soldi. E se Trump spende per cacciare Messie, e Musk per confermarlo, uno dei due vincerà, l’altro perderà.

(Estratto da Appunti)

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