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Vi racconto che cosa succede in Messico

A 500 anni dalla Conquista, la memoria e la coscienza della storia e degli interessi comuni di europei e latinoamericani sono alle prese con una crisi: polemiche, personaggi e il caso Messico. L'approfondimento di Livio Zanotti

Ormai è una zuffa: re, capi di stato, linguisti, scrittori, antropologi, il governo di Madrid… tutti a gridarsi in faccia diritti, oltraggi e i loro significati di oggi attraverso quelli di ieri l’altro. Ma ancor che innominata la questione di fondo resta lo sviluppo. In America Latina s’è di nuovo inceppato. E tutte le occasioni vengono bene per girarci intorno, data l’enorme difficoltà ad affrontare davvero questo tema-moloch senza scontrarsi in troppo impari battaglie interne e internazionali. E’ un esorcismo non dichiarato, raffinatissimo e abbastanza inutile. A cinquecento anni dalla feroce Conquista spagnola e dall’avvio dello sfruttamento dell’America, con cinquecento milioni di latino-amerindi che chiedono cibo, salute, educazione e li chiedono ora, ai rispettivi governi e al mondo.

Soverchiato da un drammatico groviglio di problemi sociali ereditato dal precedente governo populista di destra, il nuovo Presidente del Messico, il populista di sinistra Andrés Manuel Lopez Obrador (AMLO, come l’ha ribattezzato la passione corrente per gli acronimi), a soli cento giorni dall’assunzione non trova di meglio che pretendere pubbliche scuse dal re di Spagna e dalla Chiesa cattolica di Roma per la distruzione dell’impero azteca nel 1520 e la riduzione in schiavitù dei suoi sudditi, ottenute con la spada, la croce. Dietro l’orgoglio maldestro della rivendicazione, c’è una trasparente disponibilità a una collaborazione economica che la veemenza autarchica di Donald Trump rende difficile da sviluppare verso il tradizionale partner statunitense. Ma nessuno in Europa sembra aver voglia di darsene per inteso.

Si accende invece una reazione a catena ideologico-dogmatica non inedita ma di particolare acrimonia, frutto avvelenato dei conflitti socio-culturali in atto nell’intero Occidente. Da Madrid il governo risponde sorpreso e indignato, sebbene il premier socialista Pedro Sanchez (preoccupato ben più delle imminenti elezioni politiche spagnole che della politica estera europea) avesse già ascoltato la medesima richiesta dalla viva voce di AMLO nella visita ufficiale a Città del Messico, poche settimane prima. Come se ignorasse quanto è a tutti arcinoto: la riacutizzazione della vertenza indigena che produce ormai da anni incidenti sempre più violenti dal rio Grande del Norte alla Patagonia, allarmando ogni giorno di più tutti indistintamente i governi latinoamericani, così come le grandi imprese che vi hanno investimenti rilevanti.

Le repliche più interessanti a Obrador giungono però -occasionalmente-, dalla stessa America Latina, dalla città argentina di Cordova, dov’è riunito l’VIII Congreso Internaciónal de la Lengua Española. Presenti centinaia di specialisti, semiologi, scrittori, accademici, molti dei quali noti e prestigiosi, oltre al capo di Stato argentino, Mauricio Macri, e all’attuale monarca spagnolo, Felipe VI di Borbone. Il re, super-prudente, sorvola l’incidente diplomatico come un drone nella notte. Ciò che tuttavia non gli impedisce una solenne gaffe, quando chiama José il celebre scrittore argentino Jorge Luis Borges, che appena un istate prima aveva definito “nostro”. E subito c’è chi vi prende spunto per ricordare la battuta con cui il geniale autore di El Aleph, notoriamente adicto al paradosso e al calembour, pretese a suo tempo di liquidare la faccenda: “L’America non fu invasa dagli spagnoli, ma dagli avi degli stessi americani…”.

A impelagarsi nella polemica sono invece il Presidente argentino e il Nobel della letteratura Mario Vargas Llosa. Uno dopo l’altro, con parole non molto dissimili, l’ingegnere miliardario e l’ex cantore dell’innocenza amorosa affermano in sostanza che Cortés e Pizarro furono tramiti di una modernizzazione, sebbene violenta e sanguinosa come violenti e sanguinosi erano del resto i tempi in cui si trovarono a compierla, tanto al di qua quanto al di là dell’Atlantico.

Per cui ne deriva che i milioni di indios uccisi a fil di spada o morti di malattie e inedia, sfiniti da 15-18 ore di lavoro quotidiano, la negazione e l’emarginazione dei superstiti, secoli di saccheggio dei beni naturali, dall’oro al caffè, dall’argento al tabacco, dallo zucchero al caucciù, alla patata, al pomodoro, vanno considerati alla stregua di danni collaterali. Niente a che fare la più gigantesca capitalizzazione primaria della storia.

Neppure un richiamo al religioso Bartolomé de las Casas, umanista e teologo, il cui abnegato lavoro culturale e politico in favore del riconoscimento di elementari diritti umani per gli indios dovette pazientare mezzo secolo, affinché venisse riconosciuto giuridicamente dalla corte reale di Madrid. Tanto per avere un’idea concreta di ciò di cui stiamo parlando: la prima misura che ottenne, fu il divieto di usare gli indios come moneta di pagamento in cambio di merci e servizi. Nondimeno il Presidente Macri è stato più colpito dai vantaggi dell’unificazione linguistica delle diverse etnie nello spagnolo: ”Immaginiamoci -ha detto- se qui gli argentini parlassero argentino; i peruviani, peruviano; i boliviani, boliviano; se avessimo bisogno dell’interprete per parlare con gli uruguayani”. E lui, al contrario di Borges, non è noto per amare i paradossi.

Il Collegio degli Antropologi gli ha subito tirato le orecchie. Ricordando al capo dello Stato che avrebbe il dovere di sapere dell’esistenza a tutt’oggi di almeno altre 15 lingue, quotidianamente praticate da milioni di nativi. La natura pluriculturale e plurilinguistica degli stati latinoamericani è peraltro ormai da tempo riconosciuta praticamente da tutte le carte costituzionali del continente, non esclusa l’Argentina. Non minor stupore ha suscitato poi l’apologia dello spagnolo pronunciata dal Nobel per la letteratura Vargas Llosa. Non di per sé, che com’è ovvio costituisce un patrimonio culturale prezioso, attraverso il quale si sono espresse testimonianze di valore universale. Bensì per il suo impoverimento nell’uso contrapposto ad altre lingue evidentemente meno monumentali e diffuse a causa delle evenienze storiche. Ma non per questo meno valide in quanto elemento fondante dell’identità di popoli i cui apporti alla storia dell’umanità sono significativi e innegabili.

Nessuna leyenda negra, nessuna barbarie, nessun reciproco arricchimento nell’incontro con il diverso da noi nella memoria ufficiale. Nell’America Latina del 2019 semplicemente compie 500 anni una nuova civilizzazione, il primo e impareggiabile colonialismo europeo. Nessuna meraviglia postuma per quella Venezia americana che fu Tenochtitlán, la capitale dell’impero azteco, costruita nel mezzo d’una straordinaria laguna e bruciata dagli uomini di Cortés 488 anni fa. Ricreata in tutto lo splendore immaginato da Diego Rivera nell’impressionante murale del Palazzo di Governo a Città del Messico, chissà quali sentimenti suggerisce ad Andrés Manuel Lopez Obrador che se la trova ogni momento davanti agli occhi. Osservatore profondo, egli forse sa che “l’instaurazione dell’inconscio può essere considerata il punto culminante di quella scoperta dell’altro in noi stessi” (Tzvetan Todorov), cominciata storicamente con quei fortunosi sbarchi delle prime caravelle nelle Indie occidentali. E che per rimuovere tante rimozioni è necessaria anche la politica.

Livio Zanotti
Ildiavolononmuoremai.it

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