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Perché la sberla di Meloni a Conte e Di Maio sul Mes è sacrosanta

Come e perché Meloni sul Mes ha criticato Conte e Di Maio. Il commento di Giuseppe Liturri

Quando è troppo è troppo. Ed al presidente del Consiglio Giorgia Meloni dev’essere sembrato davvero troppo e martedì sera alla Camera, con replica mercoledì mattina al Senato, ha deciso di non mandarle a dire all’ex presidente Giuseppe Conte, a proposito degli eventi che portarono alla firma della riforma del Trattato del Mes il 27 gennaio 2021. Gliene ha “cantate quattro”, anche con una certa veemenza.

La Meloni ha rimproverato a Conte, ed al suo ministro degli Esteri dell’epoca Luigi Di Maio per mano dell’ambasciatore plenipotenziario presso la Ue Maurizio Massari, di aver firmato il 27 gennaio 2021 il testo della riforma del Trattato del Mes, ancorché dimissionario dal giorno precedente e quindi in carica per il “disbrigo degli affari correnti”.

Inoltre, la Meloni ha obiettato che quella firma fu comunque apposta in assenza di mandato parlamentare.

Premesso che quella firma sanciva solo l’accordo su un testo negoziale condiviso, da portare alla ratifica dei rispettivi Parlamenti nazionali, gli unici titolati ad assumere impegni vincolanti, i due rilievi della Meloni si legano. Perché è vero che il dibattito parlamentare del 9 dicembre 2020 si era concluso con l’approvazione di una risoluzione che, tra le altre cose, impegnava il governo a “a finalizzare l’accordo politico raggiunto all’eurogruppo e all’ordine del giorno dell’Eurosummit sulla riforma del trattato del MES”. E con quel mandato Conte si recò dopo pochi giorni all’Eurosummit decisivo per la definizione della volontà politica.

Ma è anche vero che quello stesso Parlamento aveva in precedenza approvato ben due risoluzioni (nel giugno e nel dicembre 2019, seppure con un cambio di Governo e relativa maggioranza nel mezzo), con le quali ribadiva la necessità che la riforma del Mes procedesse di pari passo con quella di altri pilastri dell’architettura istituzionale della Ue (Unione Bancaria e Patto di Stabilità). Quel Parlamento aveva manifestato la chiara volontà politica di considerare il Mes un tassello di un disegno complessivo che doveva almeno definirsi, se non completarsi, congiuntamente. Altrimenti, il governo sarebbe stato privo di mandato nelle trattative e la ratifica non sarebbe mai arrivata. In sintesi, niente pacchetto, niente riforma del Mes. E quindi quella firma, che sanciva la fine dei negoziati, non avrebbe mai dovuto essere apposta.

E anche la risoluzione del dicembre 2020, seppure con termini più sfumati rispetto a quella di un anno prima, ribadì tale volontà politica.

Quando il 26 gennaio 2021 Conte presentò al presidente della Repubblica le dimissioni del suo governo, rimase in carica, come sempre accade, per il “disbrigo degli affari correnti”. Un concetto molto flessibile, di volta in volta interpretato dai Presidenti dimissionari con una apposita direttiva indirizzata ai suoi ministri. E quella del Presidente Conte aveva un raggio d’azione relativamente ridotto. Ma a prescindere dalla legittimità degli atti posti in essere dal quel governo, dopo le dimissioni della mattina del 26 gennaio, non può non essere evidente un gigantesco problema di opportunità politica.

Com’è stato possibile per Conte e Di Maio assumersi l’enorme responsabilità di porre la firma su un testo, quando la maggioranza politica che, seppure tra mille distinguo, gli aveva dato mandato di “finalizzare l’accordo politico raggiunto all’Eurogruppo” (del 30/11/2020, anche in questo caso senza chiaro mandato parlamentare), non c’era più?

Non a caso, anzi proprio per questo motivo, Mario Draghi si è ben guardato dal portare in quel Parlamento il disegno di legge di ratifica. Non c’era la maggioranza, ma anche se ci fosse stata, il mandato parlamentare era più ampio e chiedeva di negoziare su tutto il pacchetto, non accettare una parte soltanto. Ma ciononostante quella firma arrivò “col favore delle tenebre” ed ora il Parlamento ha tutto il diritto di mettere la parola fine su quella pagina buia.

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