L’ostentata prudenza con la quale Giorgia Meloni commenta l’accordo sui dazi tra Ue e Usa, la sua insistenza nel dire di voler vedere i dettagli e capire meglio, prima di pronunciarsi, è un esercizio di buon senso, di fronte a una intesa che ispira molte più perplessità che convinzioni. Basti la battuta del presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, secondo cui “tutto quello che va oltre lo zero ed è un problema”. Basti il rapido calcolo per cui la mediazione del 15% è un rialzo di oltre 10 punti percentuali rispetto alle tariffe vigenti. Bastino i commenti in rassegna stampa, che bacchettano l’inadeguatezza di Ursula von der Leyen.
Partiamo da qui, per un minimo ragionamento e per una minima provocazione. La rinnovata presidente dell’Unione europea si regge su una maggioranza così contraddittoria e precaria che non si riesce nemmeno a criticarla, nel senso che la maggior parte delle forze politiche vi sono coinvolte in modo parziale, dandole magari un dito se non una mano: pochissimi la avversano o l’appoggiano in modo aperto, totale, incondizionato. Emblematica la posizione di FDI, il partito di Meloni, che ha regalato alla Commissione il pezzo migliore del proprio governo, Raffaele Fitto, ma restando fuori dalla maggioranza formale di VDL.
L’Ue cammina come un’anatra zoppa, parla sempre e solo balbettando e il suo problema maggiore è la debolezza nel confronto esterno, che rischia di costarci parecchie decine di miliardi di euro. Soprattutto, l’errore sta nell’aver tenuto in sella a questo ronzino una nella persona macchiata dai suoi rapporti con Big Pharma nella gestione della politica pandemica, che ora la fa sospettare di interessi personali e collusioni ambigue qualunque altra decisione prenda. Si veda il riarmo europeo.
Alla debolezza esterna fa il paio quella all’interno e sfugge ancora la ragione di una scelta che ha il solo merito di impedire uno scontro aperto tra maggioranza e opposizione degli europei. Evitarlo è forse un’esigenza dovuta all’ulteriore instabilità, talvolta ai limiti del golpismo, che si vive in molti Stati, dalla Spagna alla Francia, dall’UK fino alla Germania. Non si è voluta aggiungere una situazione simile a Bruxelles e Strasburgo e la “coalizione a ripetere” è parsa una soluzione di rimedio, un meno peggio.
L’accordo suoi dazi forse non sarà apocalitticamente catastrofico per le nostre economie, imprese, lavoratori, ma di certo è deludente, deprimente, autolesionistico. Valuteremo meglio vedendo i dettagli, come raccomanda Meloni. Di cui, dopo la copertina del Time che la incorona a guida dell’Europa e dopo il gossip che la vuole candidata al Quirinale, ci sarebbe ragionevolmente da chiedersi se non sia la persona giusta per prendere il posto di Ursula.
L’Italia meloniana vanta risultati migliori di quasi tutti gli alti Stati membri dell’Ue. E una longevità straordinaria in senso statistico, per l’Italia, tanto da compensare ampiamente qualche ragione di preoccupazione, calo di produzione industriale e salari insoddisfacenti in primis, con i dati record sull’occupazione, sul gettito fiscale, sullo spread (incredibile quanto sia sceso, per chi ricorda la quotidiana propaganda sui rialzi ai tempi berlusconiani). Giorgia al posto di Ursula? Perché no? Magari!