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Riforma Giustizia, Meloni gongola grazie a Mattarella

Al Quirinale non c’è Oscar Luigi Scalfaro, che andò ad un congresso di magistrati per promettere che mai avrebbe firmato una legge sulla separazione delle carriere... I Graffi di Damato

Reduce da Caivano, dove non si sa se abbia più rinfacciato o ricambiato l’insulto di “stronza” rifilatole da un Vincenzo De Luca peraltro recidivo, avendolo ripetuto dopo il primo, immediato stordimento, Giorgia Meloni si è intestata la riforma costituzionale della giustizia appena varata all’unanimità dal Consiglio dei Ministri. “Epocale”, l’ha definita per la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la separazione anche del Consiglio Superiore della Magistratura in due sezioni – dove le toghe continueranno ad essere in maggioranza ma estratte a sorte, e quindi sottratte al gioco delle loro correnti – e il passaggio delle sanzioni disciplinari ad una “corte alta” e diversa. Il sindacato delle toghe ha già innescato la marcia di uno sciopero di protesta da proclamare durante il percorso parlamentare della riforma, diviso in quattro tappe. Ma non sarà certamente questo a bloccare la Meloni con i guantoni attribuitigli con eccesso di zelo combattente dal Tempo.

Nell’intestarsi la riforma, nonostante i soliti retroscenisti le avessero attribuito ripetutamente il proposito di ritardarla, la premier ha voluto anche interrompere il macabro gioco degli avversari di intestarla a qualche defunto. “A babbo morto”, ha titolato il manifesto, per esempio, alludendo a Silvio Berlusconi con quella foto di Antonio Tajani, il suo successore in Forza Italia, che quasi ringrazia il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ma a Berlusconi Il Fatto Quotidiano ha aggiunto Licio Gelli e Bettino Craxi, dimenticando Giovanni Falcone, convinto pure lui della separazione delle carriere. E fingendo di ignorare il sì appena giunto, in una intervista al Tg1, dall’ancora vivo Antonio Di Pietro, con tutto il suo passato di pubblico ministero adorato da manettari in corteo per le strade di Milano fra le retate di Tangentopoli.

Più che a babbo morto, ripeto col manifesto, si dovrebbe scrivere “a mamma viva” dopo il merito della riforma che la Meloni ha voluto attribuirsi, anche a costo di ridurre l’esposizione del suo notissimo guardasigilli, già da lei candidato al Quirinale quando era all’opposizione. A mamma viva e decisa a non lasciarsi intimidire né – ripeto – dallo sciopero prevedibile dei magistrati né da quel “gelo” attribuito, a torto o a ragione, da Repubblica al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che pure autorizzerà la presentazione al Parlamento della riforma anticipata al Quirinale da Nordio in persona e dal sottosegretario di Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, magistrato in aspettativa.

Non so con quale termometro sia stato misurato il gelo del Colle, contraddetto peraltro dal Messaggero con l’annuncio di una “mediazione”, per quanto prevedibilmente sgradita da lor signori, scriverebbe il compianto Fortebraccio sull’Unità di una volta. Certo è che al Quirinale non c’è da parecchio Oscar Luigi Scalfaro, che andò ad un congresso di magistrati per promettere che mai avrebbe firmato una legge sulla separazione delle carriere.

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