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Draghi Rinnovabili

Draghi è diventato il muro portante del G7?

A Roma i partiti provano a logorare Mario Draghi, ma nel G7 prende sempre più quota. L'analisi di Francesco Galietti, esperto di scenari strategici e fondatore di Policy Sonar.

A Roma, Draghi accusa crescenti difficoltà. Colpa di un parlamento che risale all’ormai lontano 2018, quando spirava la bora anti-establishment, e di una legislatura ormai sfilacciata in cui le ombre si allungano e i pugnali vengono metaforicamente sguainati. I partiti sentono l’imminenza delle elezioni, e si agitano. Draghi riconosce fin troppo bene cosa stia accadendo, e ovviamente è preoccupato. Ha anche capito, però, che le agende diplomatiche globali giocano a suo favore. Senza di lui, il G7 sarebbe un instabile budino, e l’Italia verrebbe di nuovo risucchiata in una ambigua nebulosa. Con i nuovi equilibri mondiali, si tratterebbe di uno scenario pericoloso. Resta da capire se i nuovi equilibri mondiali possano prevalere sui regolamenti di conti di fine legislatura a Roma, che in circostanze diverse avrebbero già determinato la fine politica di Draghi.

L’ultimo episodio in ordine di tempo è il tour europeo del Primo Ministro Fumio Kishida, con la sua visita a Roma la scorsa settimana. Kishida ha chiesto unità di fronte alla formidabile sfida dell’invasione russa dell’Ucraina, ma anche di una Cina tanto arrembante quanto insicura e fragile. La visita di Kishida a Roma ha avuto una discreta risonanza, non solo in Italia ma anche all’estero. C’è dell’altro: Kishida ha incontrato Draghi dopo aver ricevuto il tedesco Olaf Scholz a Tokyo e pochi giorni prima della visita di Draghi a Washington di questa settimana, in un simbolico abbraccio e passaggio di testimone. È ormai alle viste il prossimo summit G7 a Elmau, in Germania sotto la presidenza di turno tedesca, e Kishida sta preparando meticolosamente l’incontro. Il messaggio di fondo è chiaro: di fronte al blocco eurasiatico – Russia ma anche Cina – serve unità e fermezza da parte del G7 come mai prima.

L’assist giapponese a Draghi è notevole. A Draghi viene dato atto di aver ricondotto con coraggio l’Italia nell’alveo dell’euro-atlantismo, dopo numerosi anni di sbandate e flirt di Roma con Cina e Russia. A Draghi, inoltre, viene demandato il fondamentale compito di fungere da raccordo con l’altra sponda dell’Atlantico. È senza dubbio un riconoscimento tributato all’individuo Draghi e al suo straordinario curriculum più che all’Italia, dal momento che, se sul piatto della bilancia finissero le economie dei membri del G7, il ruolo in questione toccherebbe al Giappone stesso o alla Germania.

Va detto che Scholz era già stato a Washington, tenuto per mano da Angela Merkel e ancora cancelliere in pectore, e che in questo periodo ha preferito accordare priorità al Giappone, rompendo così la tradizione di Angela Merkel che nei suoi viaggi di Stato in Asia aveva sempre visitato la Cina prima del Giappone. Senza contare che Scholz si ritrova qualche brutta gatta da pelare in casa propria: da settimane, ormai, l’ambasciatore ucraino a Berlino Andrij Melnyk prende di mira governo e istituzioni tedesche, denunciandone con un linguaggio molto diretto lentezza e ambiguità. L’establishment tedesco non ha granché gradito il continuo punzecchiamento, e la Frankfurter Allgemeine ha ribattezzato Melnyk ‘Krawalldiplomat’, ambasciatore fracassone. Scholz, insomma, ha un ruolo di grande rilievo nel G7 ma al momento tutto gioca a favore di Draghi, e in definitiva la cosa va bene a tutti all’interno del club.

Questo stato di cose legittima Draghi come interlocutore privilegiato degli americani e figura di luogotenente in un’area, quella euro-mediterranea, tornata quanto mai ‘calda’ sulle mappe globali. È un ruolo a cui lo stesso Draghi non vuole sottrarsi, tanto più che da diverso tempo il nostro sembra tornato al primo amore: gli USA. Dopo lunghi anni di sostanziale disinteresse americano per l’Italia, sulle rive del Potomac Roma è tornata di grande attualità, anche se non tutto può dirsi ancora assestato a puntino. Colpisce, per esempio, che dopo così tanti mesi trascorsi dall’insediamento di Biden alla Casa Bianca, ancora non ci sia un ambasciatore a stelle e strisce in Italia, al punto che il ricevimento a Villa Taverna per Independence Day dovrà essere gestito dal chargé d’affaires (peraltro uscente) anziché da un ambasciatore. Al netto di questi aspetti di colore, non vi è dubbio che Draghi stia investendo molte energie sul rapporto con gli USA. Nell’attuale amministrazione democratica può contare su una vecchia amica, Janet Yellen, oltre che su fette di deep State. Quella di Draghi è una scommessa che potrebbe rivelarsi vincente, e che potrebbe ampiamente ripagarlo delle ammaccature rimediate nella corsa al Quirinale. In caso di elezioni nel 2023, infatti, senza una maggioranza netta uscita dalle urne, Draghi potrebbe ricevere un nuovo mandato da presidente del Consiglio. E nel 2024, appena un anno più tardi, ci saranno le europee e andrà nominato il successore di Ursula von der Leyen.

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