Il settimanale tedesco Der Spiegel ne è convinto: dopo sei mesi di proteste dei gilet gialli, scesi in piazza ogni sabato per chiedere le sue dimissioni, Emmanuel Macron ha deciso di cambiare linea politica, prendendo le distanze dal modello tedesco, basato su austerità e riforme strutturali, un modello seguito nella prima parte del suo mandato presidenziale, ma destinato ad essere abbandonato nel «secondo atto».
Il segnale più evidente di questo riposizionamento, nota Der Spiegel, lo ha dato lo stesso Macron in un passaggio (sfuggito a molti) della conferenza stampa di giovedì scorso all’Eliseo: «La Germania senza dubbio si trova alla fine di una fase di crescita, che ha tratto un enorme vantaggio dagli squilibri nell’area dell’euro. La Germania ha un modello di produzione basato sul fatto che in Europa vi siano paesi con bassi costi di produzione, vale a dire esattamente l’opposto del progetto sociale che io intendo rappresentare in Europa».
Colpito da questo bordata di critiche da parte di colui che da due anni è considerato l’alleato più importante della cancelliera Angela Merkel, il partner strategico dell’asse franco-tedesco che ha dettato legge nell’Unione europea, il settimanale di Amburgo ha chiesto lumi a un conoscitore autorevole della politica dell’Eliseo come Sébastien Maillard, direttore dell’Istituto Jacques Delors di Parigi. E questi ha confermato il cambio di linea: «Il primo atto della presidenza Macron era completamente focalizzato sulla Germania; ora, nel secondo atto, ha elaborato la delusione causatagli dalla Germania e guarda in altre direzioni». In buona sostanza, significa che «la Germania non è più un modello per le riforme francesi, ma soltanto il principale modello economico d’Europa, in via di progressivo superamento».
Per rendere più esplicita la stoccata sul «progressivo superamento» del modello tedesco, Maillard aggiunge: «La Germania è troppo dipendente dalla sua industria automobilistica. In passato, quando si parlava degli agricoltori francesi, a Berlino si diceva che Parigi, in Europa, si preoccupa solo della sua agricoltura. Ora sta arrivando il vagone di ritorno». Un cazzotto al governo Merkel, che Elie Cohen, ex docente dell’Ena, la Scuola di amministrazione dove ha studiato anche Macron (che ora, da finto populista, dice di voler chiudere perché troppo d’élite), e tuttora uno dei consiglieri dell’Eliseo, mostra di condividere: «La Germania dice di avere compreso la crisi del diesel, ma in realtà non si sta muovendo. Infatti Berlino rifiuta di applicare la tassa digitale sulle principali società tecnologiche Usa perché teme i dazi Usa sulle sue automobili».
Ma questo comportamento tedesco sta paralizzando l’Unione europea, che finora non ha saputo elaborare nessuna risposta al protezionismo di Donald Trump e alla politica espansiva della Cina con la nuova Via della seta. In questo contesto, sostiene Cohen, «le riforme liberali che la Germania ha predicato finora sono diventate inutili, mentre i mercati di vendita tedeschi nei paesi emergenti, come quello delle costruzioni meccaniche, sono a rischio collasso».
Da qui, sottolinea Der Spiegel, il cambio di linea dell’Eliseo sia in Francia che in Europa: «Macron ora vorrebbe usare la discussione per riposizionare la Francia, allontanarsi dal ruolo di studente modello delle riforme tedesche, per diventare promotore di una nuova politica economica europea, sempre meno basata sul semplice credo nel libero mercato».
È interessante notare che il settimanale tedesco non è l’unico in questi giorni, alla vigilia del voto europeo, a sottolineare alcuni punti critici della costruzione Ue. Il Financial Times e Le Figaro, con un parallelismo insolito, criticano l’euro, il cui meccanismo funziona male, o comunque peggio di come avevano previsto i suoi fondatori: essendo una moneta imposta, con regole assai rigide, non ha ottenuto lo stesso effetto nei paesi dell’eurozona; in alcuni l’economia ne ha tratto qualche beneficio, mentre in altri ha di fatto impedito la crescita, senza ridurre il debito pubblico, come in Italia. In pratica, le economia dei vari paesi membri o si adattano all’euro, oppure saltano. Tanto che il Financial Times scrive di «infrangibile, ma insostenibile eurozona», destinata a restare senza più munizioni difensive nel caso di una eventuale crisi monetaria, che potrebbe essere «provocata dal debito italiano».
Uno scenario che il Wall Street Journal ha riassunto, parlando di «incredibile restringimento dell’euro», con questi dati: dal 2009 al 2017 la Cina è cresciuta del 139%, gli Usa del 34%, mentre l’Ue è calata del 2%. Un impoverimento che ha colpito diversi paesi Ue, soprattutto l’Italia, ma anche la Francia, costringendo Macron a fare i conti con la realtà: debito pubblico francese al 99% del pil, debito privato pari al 175% del pil (all’inizio della crisi era del 135%), un deficit commerciale enorme, passato da 2,1 a 59,9 miliardi nel 2018, più un impoverimento che il centro studi tedesco di politica europea ha documentato, precisando che, nei venti anni di vita dell’euro, ogni tedesco ha guadagnato 23.116 euro di maggiore reddito, un olandese 21.300, mentre un italiano ha perso 73.650 euro e un francese 56.996.
Sarà dunque interessante scoprire, dopo le elezioni europee, qual è il «modello sociale ed economico» che Macron vuole proporre in Europa come alternativa a quello tedesco, e con quali alleati. Finora, infatti, per placare i gilet gialli, non è andato al di là di una vaga promessa di riduzione delle tasse, consapevole che la Francia detiene da anni il primato della maggiore pressione fiscale in Europa, con il 46,2% (le aziende pagano il 34,4 e i cittadini il 51,5%), contro una media Ue del 39,9%.
(estratto di un articolo tratto da Italia Oggi)