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Giorgetti

M5s di Conte sarà una tigre di carta contro il governo Meloni?

Ma il Movimento 5 Stelle di Conte sarà davvero centrale come dice Paolo Mieli? I Graffi di Damato.

 

La buonanima di Amintore Fanfani nei momenti, diciamo così, di stanchezza o defilamento, fra un ritorno e l’altro, distribuiva matite e pennelli tra il suo tavolo d’artista per disegnare e dipingere e la scrivania di professore per segnare di blu e di rosso le parole di cui si nutriva il dibattito politico. Parole “magiche” -diceva- che servivano solo a confondere le acque. Se la prese una volta, in particolare, contro il “confronto” che Aldo Moro, caduto in disgrazia nell’estate del 1968 dopo quasi cinque anni a Palazzo Chigi ogni tanto interrotti da una crisi di assestamento del suo centrosinistra “organico”, opponeva ai metodi spicci attribuiti all’altro “cavallo di razza” della Dc, come entrambi venivano chiamati da Carlo Donat-Cattin.

Magica, per esempio, più apparente che reale, insomma più falsa che vera, è la “centralità” che, ospite di Enrico Mentana in televisione, il mio amico Paolo Mieli ha voluto attribuire più volte a Giuseppe Conte commentandone ieri sera una conferenza stampa appena svolta dall’interessato per vantarsi di un risultato elettorale del MoVimento 5 Stelle pur dimezzato rispetto a quello del 2018. Più che dimezzato, anzi: dal 33 a poco più del 15 per cento, che tuttavia gli darebbe il diritto -a sentirlo- di rimanere protagonista quanto meno dell’opposizione. Attorno alla quale l’ex presidente del Consiglio ritiene debba evidentemente svolgersi la nuova legislatura, pur essendo state le elezioni vinte dal centrodestra ormai di Giorgia Meloni, “pienamente legittimato” a governare, ha ammesso -bontà sua- l’uomo di Volturara Appula.

Se la matematica non è diventata anch’essa un’opinione, il 15,4 di Conte alla Camera e 15,5 al Senato sono inferiori, non superiori, rispettivamente, al 19 e al 19,9 del Pd di Enrico Letta. Cui andrebbe riconosciuto per ragioni appunto di matematica di essere uscito meglio di Conte dalle urne, aumentando peraltro e non diminuendo il 18 virgola qualcosa del 2018, nonostante la scissione subita successivamente ad opera prima di Matteo Renzi e poi di Carlo Calenda. Che insieme hanno appena guadagnato il 7,7 per cento.

Ma il Pd -mi direte- è in dichiarata crisi con l’annuncio delle dimissioni del segretario e di un congresso al quale egli ha giù escluso di ricandidarsi. Conte invece è al riparo adesso anche dalle bizze di Beppe Grillo e si gode la letterale scomparsa dal Parlamento di Luigi Di Maio, il suo ex capo, benefattore e infine “traditore”, forse destinato a non rientrare neppure come il più semplice dei pastori nei presepi di Fuorigrotta, fra qualche mese.

Quella di Conte a Giorgia Meloni sarà un’opposizione “non dura ma durissima”, ha annunciato minacciosamente l’interessato: minacciosamente anche verso il Pd, che gli si dovrà accodare e non affiancare sino a quando non uscirà dal congresso previsto in gennaio un “nuovo gruppo dirigente”. Che riscatti il Nazareno dal ruolo ancellare svolto per più di un anno e mezzo verso Mario Draghi e la sua più o meno mitica “agenda” di politica internazionale e interna. Non un cenno di resistenza, di obiezione, di amor proprio -si diceva una volta- si è levato dal Pd, in cui sembra prevalere più la rassegnazione che la rivendicazione di una “centralità” un po’ più concreta all’opposizione. Che nel suo complesso, quindi, con quel 15 per cento -ripeto- di polveri di stelle uscite dalle urne, non mi sembra francamente destinata a creare tantissime difficoltà al governo della prima donna in Italia. Attorno alla quale, non per galanteria ma per le emergenze perduranti in vari campi, finirà per crearsi una catena di sostegno riconducibile ad un presidente della Repubblica che non a caso -come annunciato da notizie delle scorse settimane non smentite- ha già avuto due incontri personali con la leader della destra dopo lo scioglimento delle vecchie Camere, e durante la campagna elettorale.

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