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Luci e ombre della Trumponomics. L’analisi di Allen Sinai

Molti risultati positivi, alcuni effetti controversi e molte incognite. La Trumponomics analizzata da Allen Sinai, guru di Wall Street, già consulente della Fed e della Casa Bianca, ora fondatore di Decision Economics

 

L’accelerazione della crescita nel 2018 può essere in parte attribuita alle politiche dell’amministrazione Trump. Gli sgravi fiscali introdotti con il Tax Reform and Jobs Act del 2017 sono permanenti, non temporanei come quelli di Obama. Precedenti analoghi risalgono alle amministrazioni Kennedy Johnson (1962-1966), Reagan (1981-1986) e Bush figlio (2003-2006).

Il Joint Committee on Taxation stima che il taglio fiscale di Trump abbia iniettato nell’economia 136 miliardi di dollari nel 2018, pari allo 0,7% del Pil , mentre nel 2019 il contributo sarà ben maggiore: 280 miliardi, pari all’1,3% del Pil. Nel complesso, lo stimolo economico per il biennio 2018-2019 sfiora dunque i 500 miliardi. Dei 136 miliardi di sgravi del 2018, il 38% va alle persone fisiche e il 62% alle imprese; i 280 miliardi del 2019 andranno invece per il 55,7% alle persone fisiche e per il 44,3% alle imprese. Si tratta di uno stimolo leggermente maggiore di quello introdotto da George W. Bush nel 2001-2003, ma leggermente inferiore a quelli delle amministrazioni Kennedy-Johnson e sensibilmente più contenuto di quello voluto da Reagan negli anni 1981-1984.

Gli sgravi a individui e imprese producono effetti sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta. Quanto alla prima, l’aumento del reddito disponibile per effetto della minore tassazione genera un incremento dei consumi e del risparmio; i precedenti mostrano che nell’immediato ad aumentare di più sono i risparmi, mentre alla lunga aumentano anche i consumi. L’economia statunitense ha fatto bene senza gli sgravi fiscali e farà ancora meglio con essi: c’è da aspettarsi una crescita reale maggiore, un’ulteriore riduzione dei senza lavoro, un parziale aumento dell’inflazione e dei profitti. Ciò perché gli sgravi spostano i soldi dal comparto governativo, soggetto a tagli ormai da diversi anni, al settore privato, dove di certo saranno in gran parte spesi.

Decision Economics stima che negli anni 2018, 2019 e 2020 gli sgravi genereranno un incremento del Pil (rispetto all’ipotesi di una loro assenza) rispettivamente dello 0,3, 0,5 e 0,2%. A conti fatti, inoltre, il disavanzo federale potrebbe risultare molto più contenuto rispetto alle stime. Ciò dipenderà da vari fattori: gli effetti sul gettito fiscale dell’aumento di crescita e inflazione, la riduzione di alcuni programmi governativi, il rimpatrio di capitali dall’estero grazie allo scudo fiscale (con un prelievo una tantum del 15,5%) e i risparmi fiscali sulla spesa per attrezzature.

La crescita sostenuta e l’ulteriore calo della disoccupazione si rifletteranno positivamente sui salari e, pertanto, faranno aumentare leggermente i prezzi al consumo, ma come visto le nuove tecnologie contribuiranno a moderare la dinamica inflattiva. Noi prevediamo che l’inflazione cresca gradualmente, superando verso metà 2019 l’obiettivo massimo del 2% fissato dalla Fed. A quel punto, la banca centrale potrebbe alzare i tassi d’interesse e da allora scatterà il conto alla rovescia per la fine del ciclo espansivo. Perlomeno, è quel che succede di solito.

Oggi possiamo certamente parlare di “decennio d’oro” per l’economia americana. Tuttavia, mantenere la prosperità nel lungo periodo è molto più difficile che conseguire il pieno impiego e la stabilità dei prezzi. Alla lunga, la Federal Reserve prevede un’economia ancora in equilibrio da piena occupazione: crescita intorno al 2% annuo, inflazione al 2% circa, disoccupazione “naturale” al 4,5%. Questi numeri non sono da buttare, ma non configurano un contesto di prosperità, la quale richiede una crescita ben più sostenuta.

Gli sgravi fiscali di Trump potrebbero aiutare in tal senso: una così marcata riduzione delle tasse alle imprese dovrebbe infatti tradursi in un forte aumento degli investimenti, che a sua volta dovrebbe accrescere la produttività e, dunque, il potenziale di crescita dell’economia. Inoltre, la crescente partecipazione alla forza lavoro (più gente in cerca di un impiego) evidenziata dalle recenti statistiche suggerisce che gli sgravi stiano iniziando a produrre effetti anche sul lato dell’offerta.

Si dice comunque che i cicli espansivi non muoiano di vecchiaia, bensì di svariati mali tra cui tassi d’interesse e di inflazione troppo alti, crisi finanziarie o del credito, squilibri nel sistema economico, scoppio di bolle speculative, shock esterni come le guerre, errori di politica economica o fiscale. L’ottimo stato del settore privato rende l’economia statunitense estremamente resistente a eventi avversi, interni o esterni. Pertanto, l’attuale fase di crescita dovrebbe protrarsi almeno fino al 2020, forse oltre.

Nel lungo termine, tuttavia, le prospettive appaiono molto meno rosee: le diseguaglianze continuano a crescere e possono avere seri riflessi sociali, alcuni dei quali sono già osservabili; il riscaldamento globale sta cominciando a produrre un impatto economico e non vi sono alle viste politiche coordinate per farvi fronte; debito e disavanzo, sotto controllo con una crescita al 3%, diverranno un fardello in caso di brusca frenata dell’economia o di recessione e allora gli Stati Uniti avranno un problema di debito sovrano; le guerre tariffarie nuocciono alle economie, al pari degli screzi con i principali partner commerciali e con gli alleati politici.

Infine, il ruolo e l’influenza globali dell’America vanno diminuendo man mano che il paese si fa più introverso e si ritira dai contesti internazionali. Alla lunga, gli Stati Uniti rischiano di perdere il controllo su gran parte di quanto accade nel mondo. Prima sul piano geopolitico e poi, inevitabilmente, anche su quello economico.

(Estratto di un’analisi più ampia; qui il testo completo)

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