Si sa, e da molto tempo si canta pure giocosamente, che “la Rai è sempre la Rai”. Specchio dell’Italia e della sua politica, direi senza volere necessariamente criticare l’una e l’altra. Lo specchio è uno specchio. Non serve sputargli addosso o romperlo se ciò che riflette non è condiviso. O semplicemente non piace, o non piace più. E neppure sottrarsi politicamente all’obbligo di gestire un’azienda pubblica, qual è appunto la Rai, quando la legge che la disciplina ha smesso di piacere, se ne reclama un’altra, anche in sede europea, e nel frattempo si pratica la diserzione dal lavoro imposto dalle norme in vigore, per quanto sporco esso possa essere avvertito, peraltro dopo averlo svolto a lungo senza sofferenza, almeno visibile e soprattutto sincera.
Anche a costo di scandalizzarvi, debbo quindi non dico solidarizzare, ma quasi, con la sinistra radicale Avs e con Giuseppe Conte che hanno partecipato alle votazioni parlamentari per il rinnovo del Consiglio di amministrazione di viale Mazzini, piuttosto che col Pd di Elly Schlein e con la ex coppia politica Matteo Renzi-Carlo Calenda nella pratica, peraltro storicamente sfortunata, dell’Aventino. Cioè del ritiro. Che -detto e scritto neppure tanto tra parentesi- non significa ritiro totale dalla gestione politica della Rai perché nelle dimensioni e caratteristiche ch’essa ha assunte si può contribuire in modo non trasparente stando anche fuori dal Consiglio d’amministrazione.
Con la sagacia del collega, ma anche con l’esperienza accumulata quando era fra i collaboratori, e i più stretti, del politicissimo Massimo D’Alema a Palazzo Chigi e dintorni, Claudio Velardi ha tanto sarcasticamente quanto giustamente dato sul suo Riformista della “furbetta del quartierino (Mazzini)” alla segretaria aventiniana, in questa occasione, del Pd. Il riferimento alla vicenda giudiziaria di Stefano Ricucci e della rocambolesca scalata persino al Corriere della Sera non è gradevole, certo. Ma il sarcasmo, ripeto, ha una sua pertinenza.
La lottizzazione della Rai, entrata nella letteratura politica come il fattore K di Alberto Ronchey ai tempi del Pci e, più in generale, del comunismo ancora protetto dal muro di Berlino, è un fenomeno in qualche modo autoproduttivo, o autoprodotto, a prescindere non solo dal Consiglio d’amministrazione di turno, e dalla dirigenza collaterale, ma persino delle segreterie politiche dei partiti.
Non vorrei mancare di rispetto ai colleghi che li lavorano o vi hanno lavorato, com’è capitato anche a me negli anni Ottanta conservandone peraltro un ottimo ricordo, ma alla Rai i giornalisti spesso si lottizzano da soli, senza il concorso dei partiti. Anzi, a volte a sorpresa e a dispetto dei partiti cui essi si trovano assegnati o iscritti d’ufficio.
Ma più che per i riflessi giornalistici, la vicenda di questo rinnovo del Consiglio d’amministrazione della Rai vale politicamente per l’esplosione che ha provocato del cosiddetto campo largo, e minato, dell’alternativa al governo Meloni. Che si è paradossalmente diviso fra l’utopia, se non la vogliamo chiamare ipocrisia, di una sinistra moderata come quella che verrebbe voglia di chiamare così perché composta dal Pd e dai sorprendentemente uniti Renzi e Calenda, e il realismo di una sinistra radicale. Come dovrebbe o potrebbe apparire quella che comprende le 5 stelle di Giuseppe Conte, o quel che rimarrà dopo la crisi che attraversa quel movimento, i nominalmente socialisti di Nicola Fratoianni e i verdi di Angelo Bonelli.
E’ una sinistra radicale, quest’ultima, che si è ritrovata sulla Rai all’insegna, ripeto, del realismo, più che dell’opportunismo ad essa rimproverata per essersi guadagnata due seggi nel nuovo Consiglio d’amministrazione. Ma essa si ritrova sistematicamente nel Parlamento europeo all’insegna di un pacifismo per me utopistico, cioè irrealistico, di fronte ad una guerra come quella in Ucraina. Della quale si riconosce a parole la responsabilità originaria della Russia, con l’invasione delle terre limitrofe due anni e mezzo fa, ma non se ne accettano tutte le conseguenze. Fra le quali, a mio modestissimo avviso, che so bene non essere condiviso da tanti, c’è anche il diritto rivendicato dagli ucraini di colpire pure la basi russe dalle quali partono gli attacchi ai loro territori e alle loro popolazioni, e non solo di abbattere i missili di Putin prima che arrivino a destinazione.