L’Isis non è Hamas.
L’Isis ha cercato di costruire un grande califfato islamico, dove poter applicare rigorosamente la sharia, la legge islamica, destabilizzando l’ordine occidentale e degli Stati arabi che non appoggiavano la sua linea oltranzista.
Hamas con l’eccidio del 7 ottobre 2023 ha espresso una volontà diretta alla creazione di un movimento di resistenza islamico, il cui scopo principale è la distruzione di Israele, risvegliando il concetto di jihad (sforzo), inteso nel suo significato di guerra santa nella via di Allah.
Eppure, sebbene così distanti, qualcosa accumuna le due organizzazioni terroristiche.
Partiamo da due immagini che ci raccontano di un’infanzia interrotta dalla violenza della guerra.
La prima del 17 luglio 2015, ritrae un bambino di circa dieci anni, vestito in tuta mimetica, che decapita un uomo indicato come un militare siriano. Alla fine dell’azione la testa dell’uomo viene mostrata dal piccolo carnefice come un trofeo, per riceve il plauso dal jihadista adulto posto al suo fianco.
La seconda del 7 ottobre 2023 ci racconta lo sguardo impaurito, perso, di un bambino di 12 anni, tenuto in braccio ben saldo da un terrorista di Hamas subito dopo il suo rapimento e con di fronte un altro terrorista che gli tira violentemente i capelli, prima di portarlo via inghiottito dai tunnel. Il bambino sappiamo esseresopravvissuto alla prigionia, pur avendo perso il padre ucciso dai rapitori a Gaza.
Entrambe le immagini rimandano a un uso distorto dell’infanzia, un uso deviato dal volere della propaganda, che non arretra neanche di fronte a giovani vite.
Seppur riportati nel loro ambiente che cosa rimane di questi bambini?
E che differenza permane rispetto ai loro coetanei ripresi nei social carichi di esplosivo o addestrati all’uso di mitragliatori?
La memoria di quanto vissuto sedimenterà nelle loro giovani menti come un moltiplicatore di odio e violenza.
Ed è forse questa la chiave del radicalismo e della sua globalità.