«Ma che te ne importa? Non sei mica ebreo».
Ho perso il conto di quante volte negli ultimi due anni mi abbiano fatto questa domanda. In buona sostanza, ogni volta che ho messo in dubbio una narrazione, chiesto di verificare le fonti, segnalato pregiudizi (tipo “ebrei e denaro”, persino nella chat degli ex Scout), firmato un appello (da ultimo, per il ddl Del Rio). Perché, evidentemente, l’ebraismo resta tuttora un ghetto, non fa differenza se fisico o concettuale. È una cosa piccola, circoscritta, in secondo piano rispetto alle grandi questioni nazionali e mondiali.
La cosa più triste è che la stessa domanda viene dagli amici ebrei, stupiti che un goy abbia a cuore le loro vicende. Ogni volta che chiedono «Ma sei sicuro di non avere qualche ascendente ebreo?», sento una fitta al cuore. Perché, evidentemente, nel ghetto i pochi ebrei rimasti sono abituati a viverci, mimetizzandosi per non farsi notare. È la strategia dell’opossum, che si sostanzia (per esempio) nel chiedere al prof di giustificare l’assenza dalla lezione senza dirgli che è Sukkot o Kippur. Di qui la sorpresa che qualcuno che potrebbe vivere tranquillo esca allo scoperto.
Eppure, metterci la faccia è necessario, perché la soluzione di qualsiasi problema passa per l’ammettere che il problema esiste. In tal senso, l’indifferenza della maggioranza è sempre stata l’anticamera dell’antisemitismo e della sua capacità di trasformarsi rapidamente da commento idiota in azione crudele.
Perché 130 anni fa fu proprio l’indifferenza a rendere naturalmente colpevole l’ebreo Dreyfus. Perché 120 anni fa fu sempre l’indifferenza a far ritenere credibile i “Protocolli dei Savi di Sion” fabbricati dalla polizia segreta zarista. Perché 90 anni fa fu di nuovo l’indifferenza a consentire il passaggio dall’intolleranza passiva alla persecuzione attiva. Perché 60 anni fa fu l’indifferenza a farci ignorare che gli ebrei libici arrivavano in Italia per sfuggire all’ennesima persecuzione a casa propria.
Per farla breve: oggi è l’indifferenza che permette ai più di razionalizzare l’antisemitismo come un fenomeno del passato (“gli ebrei morti”, buoni per definizione) distinto e diverso dal nostro tempo (“gli ebrei vivi”, che non meritano simpatia perché presupposti sostenitori di Ben Gvir). È l’indifferenza che consente di ignorare che oggi, nelle nostre città, bisogna aver paura di portare una stella al collo o andare in giro con il capo coperto. È l’indifferenza che permette di essere accoglienti verso qualsiasi culto o religione, fosse pure strampalato o sanguinario, tranne l’ebraismo.
Per tornare alla domanda iniziale, potrei rispondere che non sono indifferente perché sono cresciuto con la famiglia di uno dei miei migliori amici scampata per caso al 16 ottobre, con l’umorismo yiddish di Tom Lehrer, con i racconti che mio padre faceva dei suoi professori ebrei, con compagni di stanza ebrei, con ragazze ebree, con la storia della Seconda guerra mondiale (e dunque inevitabilmente della Shoah, che chiamavamo solo “i campi di concentramento”), con gli incontri con Moshe Dayan e Simon Wiesenthal.
Potrei, ma non voglio, perché nessuno è chiamato a giustificare allo stesso modo una ipotetica sensibilità verso Tootsi, Rohingya o Uiguri. Basta pensare alla celebre poesia Il dormitorio di Brecht per capire quanto sia sbagliato pretendere che all’interesse per un dato gruppo (che so, i Maori) debba necessariamente accompagnarsi a quello per tutti gli altri (che so, i Nativi Americani). Non c’è una graduatoria delle genti meritevoli di empatia, né c’è qualcuno autorizzato a stilarla in base a una impossibile pretesa di oggettività.
Per tutti questi motivi, considero ipocrita la domanda «Ma che te ne importa? Non sei mica ebreo». Comunque la si voglia mettere, dietro qualsiasi arzigogolo ci si voglia nascondere, chiedere di giustificare l’interesse per l’ebraismo senza fare la stessa domanda a chi abbia a cuore la condizione di qualsiasi altro popolo o religione è intrinsecamente antisemita.
Chag Hanukkah sameach!




