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I più frastornati dalla liberazione di Cecilia Sala sono i centristi

I più spiazzati dalla liberazione di Cecilia Sala in Iran sono stati Renzi, Calenda, Prodi e... I Graffi di Damato pubblicati sul quotidiano Il Dubbio

Tra gli effetti collaterali dell’operazione riuscita a Giorgia Meloni di riportare a casa in meno di un mese la giornalista italiana Cecilia Sala finita inconsapevolmente in Iran in un gigantesco e pericolosissimo intrigo internazionale, ci sono quelli ascrivibili al complesso tentativo di rianimare in Italia il Centro. Ma soprattutto di rianimarlo non nella posizione o nello spazio terzopolista tentato nelle ultime elezioni politiche da Carlo Calenda e Matteo Renzi, che hanno poi fatto a gara fra di loro per demolirlo, bensì a sinistra. Per costruire la terza gamba del centrosinistra auspicata già prima delle elezioni nel Pd dall’ostinato Goffredo Bettini: l’uomo che aveva promosso Giuseppe Conte come “il punto più avanzato dei progressisti italiani”, forse contribuendo a gonfiarne la bolla proprio mentre perdeva Palazzo Chigi , uscendone per fare posto a Mario Draghi.

I centristi, chiamiamoli così, di ispirazione e culturale cattolica e laica, interna ed esterna al Pd guidato da Elly Schlein, si sono dati appuntamento in due convegni programmati per il 18 gennaio a Milano e a Orvieto ben prima che scoppiasse la vicenda di Cecilia Sala. L’obiettivo degli uni e degli altri era -non so se ancora- quello di rianimare la leadership della Schlein in una coalizione realistica, e non solo immaginaria, di un’alternativa al centrodestra a conduzione meloniana.

Ebbene, a liberazione di Cecilia Sala appena avvenuta con la regìa indiscussa della Meloni, fra missione lampo da Donald Trump e complicazioni createle più o meno consapevolmente da Elisabetta Belloni formalizzando le proprie dimissioni dal vertice dei servizi segreti a detenzione della Sala appena cominciata, di cui l’ambasciatrice non poteva non essere informata; a liberazione avvenuta, dicevo, il Centro della sinistra è quello uscito forse peggio dalla vicenda per difetto, quanto meno, di analisi e di prospettazione. E persino di collocazione internazionale.

Romano Prodi, pur con l’esperienza maturata due volte brevemente a Palazzo Chigi e a Bruxelles più a lungo guidando la Commissione Europea, ha contestato alla Meloni una presunta vocazione all’”obbedienza” a Trump, Musk e compagnia bella. Addirittura prestandosi nel salotto televisivo di Lilli Gruber, proprio nel giorno della liberazione di Cecilia Sala, e raccogliendo una palla passatagli da Massimo Giannini, coautore con lui di un libro ancora fresco di stampa, a tradurre in “cavallo di Troia” in Europa l’immagine della Meloni come di una “Trump card”.

Claudio Velardi, che conosce bene la sinistra avendola a lungo frequentata in posizioni particolari di visione come quando era collaboratore di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, ha così rappresentato la sua crisi scrivendone sul Riformista proprio sul terreno della politica estera così decisivo per chi si propone come alternativa al governo in carica: “Né l’annunciato evento di una formazione centrista di impronta “cattolica” (qualunque cosa voglia dire nel ventunesimo secolo) potrà colmare il deficit strutturale dell’alleanza: la mancanza di un progetto unitario incarnato in una leadership indiscussa”. Poco importa, a questo punto, se individuata nella segretaria del Pd o in qualcun altro vestito da federatore. Come fu Prodi in tempi politicamente e storicamente lontanissimi e irripetibili, con la velocità che ha contrassegnato l’evoluzione dei partiti in Italia e dei rapporti fra di loro. O come immaginato da altri scommettendo su Ernesto Maria Ruffini, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate di cui la Meloni ha parlato nella conferenza stampa d’inizio dell’anno mostrando di non temerlo come attore o protagonista politico dell’opposizione.

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