Se tutte le strade del Medio Oriente portano al Libano, l’un tempo battezzata Svizzera dell’area, ma da troppi anni martoriato da conflitti interni ed esterni d’ogni violento tipo, l’annuncio della tregua fra Israele e Hezbollah è il primo segnale in controtendenza.
Dopo mesi di scontri, che succedono per cronologia e per geopolitica agli oltre mille giorni dell’altra guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina, il mondo tira almeno un sospiro di sollievo per un traguardo, pur ancora parziale e pieno di incognite, che fino ad oggi pareva impossibile raggiungere: la “vittoria” della diplomazia sulle armi, posto che si deve soprattutto alla mediazione degli Stati Uniti e della Francia l’aver reso possibile la precaria, ma concreta cessazione delle ostilità per 60 giorni.
Così concreta, tuttavia, che fino all’ultimo minuto che precede l’orario della formale proclamazione, Israele ha bombardato le basi e le banche degli Hezbollah a Beirut, spingendo il suo attacco in nome dell’autodifesa anche in quartieri mai presi di mira. Lo Stato ebraico sa che si fermerà -il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha confermato la tregua- e perciò prima che accada, spera di indebolire il più possibile il nemico sul campo. Qualcosa di analogo avviene tra i russi aggressori e gli ucraini aggrediti: prendere o riprendersi il maggior territorio possibile in vista del negoziato che il prossimo ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca può rendere realistico. Ma nell’attesa del cessate il fuoco -Trump ne ha fatto un obiettivo della sua presidenza-, il conflitto è destinato a intensificarsi pericolosamente.
Dunque, piccoli accordi crescono dal Libano. La terra dei cedri ha rappresentato a lungo il luogo della convivenza tra le ben 18 confessioni riconosciute, “esempio di pluralismo per l’Oriente e per l’Occidente”, come disse Papa Wojtyla. Proprio per tentare di ristabilire quell’equilibrio spezzato dal sangue così a lungo versato, l’Onu ha promosso la missione Unifil di interposizione a sud del Libano tra le truppe israeliane e gli Hezbollah. L’intesa di queste ore prevede il contestuale ritiro più a sud e più a nord dei belligeranti e la rafforzata presenza dei militari libanesi.
Ma la missione-Onu vede impegnati 1.300 militari italiani. Per noi il Libano è storia di casa, posto che nel 1982 il generale Franco Angioni comandò per 2 anni un contingente italiano con ragazzi di leva che incontrò il pieno favore della popolazione locale. Era la prima volta dalla seconda guerra mondiale che i nostri soldati andavano all’estero per difendere i civili.
Naturalmente, è prematuro affermare che dalla tregua si arriverà alla pace e che la pace s’estenderà alla Striscia di Gaza e fermerà anche i venti e le minacce di guerra dell’intera area, Iran compreso. O che il terrorismo di terra e di Mar Rosso rinuncerà alla sua violenza.
Ma un piccolo passo in Libano può diventare un grande salto per l’umanità ferita in Medio Oriente. Purché tutti i “non contendenti”, e in particolare l’Europa, s’impegnino a spegnere l’incendio prima che sia troppo tardi, e già lo è.
(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova)
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