La violenza woke esiste, l’intolleranza progressista esiste. Se ne è discusso moltissimo, dopo l’omicidio di Charlie Kirk, la confessione di Tyler Robinson indotta dal padre, la rivelazione di un particolare iconico particolarmente impattante per noi italiani: il “Bella ciao” scritto sulle pallottole. Se ne discute con una meraviglia fuori luogo, come se i buoni sentimenti non fossero da sempre sostenuti anche con cattive azioni e, viceversa, non ci fossero beneducati propagandisti di pessime idee.
Il pregiudizio alla base di questa meraviglia è importante. Si ritiene che alcune idee siano buone per definizione, senza onere di prova, per esempio quelle favorevoli alla società multiculturale, alla libertà di andare a vivere dove si preferisce, alla parità di diritti e opportunità per qualunque categoria di persone e per qualunque pulsione e desiderio si pretenda di concretizzare. Da quanto si è detto, era proprio questo il principio che Kirk contestava: non solo il merito, ma il carattere dogmatico con cui si cerca di imporlo. La frase che il guru dei Maga opponeva ai suoi oppositori – “Prove me wrong”, dimostrami che sbaglio – è in effetti azzeccatissima a definire questo nemmeno più strisciante manicheismo dei nostri tempi.
Invece le cose non stanno così. La richiesta di controllare i flussi migratori, che spesso nascondono malamente un traffico immondo e ipocriti interessi neoschiavistici, il vecchio “aiutiamoli a casa loro”, la preoccupazione di tutelare un modello di civiltà in quanto propria (“My country, right or wrong”, per usare un altro slogan) non sono affatto l’anticamera obbligatoria verso il razzismo. Diciamo di più: ci pare ragionevolissimo reputare i valori cristiani, europei, liberali migliori dell’integralismo islamico, del tribalismo, del patriarcato e del maschilismo (quelli veri). Proprio per questo l’autocritica, che è uno dei perni del nostro way of life, andrebbe esercitata con moderazione, evitando gli eccessi e gli abusi woke.
Ieri sera Rai3 ha trasmesso la prima parte della miniserie “Kabul”,che narra, in forma inevitabilmente romanzata, un capitolo della nostra storia contemporanea già di per sé attraente quanto tristemente incomprensibile, l’abbandono dell’Afghanistan da parte degli americani, che ha consegnato a taliban, mujaheddin, assassini barbuti e militanti dell’Isis il paese e i suoi sfortunati cittadini (le sue sfortunatissime cittadine, soprattutto). Tanto per dire che un pizzico di senso di superiorità ce lo possiamo permettere, così come nei confronti degli statunitensi golosi di junk food e sostenitori della pena di morte per Tyler Robinson. E per dire che anche le migliori intenzioni, come quelle diffuse nelle tante belle pagine coraniche, possono trasformarsi nei comportamenti più orribili: noi stessi abbiamo per secoli evangelizzato obbligatoriamente a colpi di guerre.
Veloce e banale annotazione in chiusura, tornando a “Bella ciao”. Dopo quella in “Casa di carta”, la citazione sul proiettile della canzone, che non si sa bene dove come quando sia nata ma sappiamo che non era un inno partigiano antifascista, conferma come sia diventata un meme universale. Motivetto orecchiabile, due parole italiane note in tutto il mondo, come mafia e “spagetti”, va bene per la qualunque, dallo sgombero del Leoncavallo all’omicidio di un avversario politico.