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Giorgetti

La Repubblica italiana si porta maluccio i 75 anni, ecco perché

I Graffi di Damato in occasione della festa della Repubblica

Di forte e intenso, diciamo la verità, restano solo o soprattutto il rumore delle frecce che svettano per la festa della Repubblica e il colore dei fumi con cui viene riprodotta in cielo la bandiera nazionale. Per il resto bisogna ammettere che la Repubblica italiana si porta maluccio, se non proprio male, i 75 anni che simbolicamente compie oggi nel ricordo del referendum del 2 giugno del 1946. Col quale gli italiani archiviarono una monarchia che aveva dissipato nel ventennio fascista i meriti acquisiti nella costruzione dell’unità d’Italia.

Ci sono generalmente settantacinquenni, o quasi coetanei della Repubblica che portano assai meglio la loro età. Per rendersene conto basta guardare, sentire e leggere il presidente del Consiglio Mario Draghi, che compirà a settembre 74 anni. E che – mi azzardo a pensare – avrà incluso anche i 75 anni mal portati dalla Repubblica quando ha indicato come primo “pilastro” della ripresa “l’innovazione”, seguita dalla “coesione sociale” e dalla “competizione”.

Chissà quante volte nei suoi primi cento giorni trascorsi a Palazzo Chigi l’ex presidente della Banca Centrale Europea, e di tutto il resto delle sue esperienze pregresse, si sarà reso maledettamente e silenziosamente conto di come sarebbe più facile, più veloce l’azione di governo senza i limiti e le contraddizioni di una Costituzione ancora troppo ottimisticamente chiamata da qualcuno “la più bella del mondo”. Essa più che inapplicata, come qualcun altro sostiene, va davvero riformata. E se precedenti tentativi sono falliti – l’ultimo fra le mani e i piedi di un Matteo Renzi che aveva incautamente personalizzato il progetto distorcendolo agli occhi di tanti elettori, accorsi alle urne referendarie del 2016 per dire no più a lui che alla riforma sottoposta al loro voto – un altro deve essere ancora compiuto per non lasciare appesa per aria la ripresa che pure avvertiamo in una pandemia non ancora sconfitta.

Tanto più è imposta questa riforma organica della Costituzione da quella parziale che è stata permessa ai grillini prima dalla Lega e poi dal Pd, nella staffetta che si sono passata alleandosi con i pentastellati, fra il 2018 e il 2019, per ridurre consistentemente il numero dei parlamentari lasciando invariate le competenze delle due Camere. Che a ranghi ridotti potranno solo aggravare, non ridurre i danni del bicameralismo “perfetto” sperimentato dal 1948. I grillini prima o poi capiranno anche questo. E qualcuno magari si scuserà, come ha appena fatto Luigi Di Maio per la pratica della gogna degli avversari certamente non inventata dalle sue parti, dove però l’hanno praticata più e peggio di tutti i predecessori.

Nella confusione o “liquidità” politica favorite anche dal mancato adeguamento della Costituzione a tutto ciò che è cambiato nella società in questi 75 anni dovremmo addirittura scaldarci, come forse si aspettano sotto le 5 stelle e dintorni, per il ring offertoci oggi dal Fatto Quotidiano. Sul quale Giuseppe Conte avrebbe sferrato il pugno decisivo a Davide Casaleggio per prendere finalmente e veramente il comando politico del MoVimento di ancora maggioranza relativa in Parlamento. Beppe Grillo glielo ha affidato come in un lascito ereditario in vita, alla faccia o a causa di quell’articolo della Costituzione, il quarantanovesimo, che troppo genericamente prescrive “il metodo democratico” ai partiti. Nei quali i cittadini possono “associarsi liberamente” per “concorrere a determinare la politica nazionale”. E’ incredibilmente scritto proprio così: incredibilmente per la realtà invece in cui siamo.

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