Cominciamo da un dato di fatto: la Chiesa cattolica, oggi, è più debole di quanto non fosse nel 2013. È molto più divisa di quanto non lo fosse allora, e la sua capacità di svolgere un ruolo nelle questioni internazionali si è ridotta.
A parte la supervisione del negoziato tra Cuba e Stati Uniti all’epoca di Barack Obama, e a parte altri tentativi tristemente abortiti (per esempio tra Maduro e la sua opposizione, tra le fazioni in guerra in Sud Sudan e nella Repubblica democratica del Congo), Papa Francesco ha soprattutto lanciato appelli che, alla meglio, sono rimasti lettera morta (per la Palestina, per i Rohingya, per la pletora di guerre in Africa etc.) e, alla peggio, hanno sollevato dei vespai, come le sue ambigue prese di posizione sulla guerra ucraina.
Apparentemente, quello che è piaciuto della sua visione internazionale è stata la formula di «guerra mondiale a pezzi»; è piaciuta talmente che tutti la ripetono ad nauseam, ciascuno interpretandola però a modo suo.
Ricordiamo però che l’attenzione della «politica estera» della Chiesa cattolica è solo in minima parte rivolta alle relazioni tra gli Stati; ma su questo terreno sembra che la voce di Roma sia oggi meno ascoltata di quanto non lo fosse solo pochi anni fa, non solo nei consessi internazionali ma anche – e questo è sempre stato di gran lunga più importante – nelle varie cancellerie.
I tempi in cui Adolf Hitler doveva fermarsi per non rischiare lo scontento del Vaticano o i tempi in cui l’interventismo di Karol Wojtyła spingeva gli europei a sostenere la Croazia e la Slovenia contro la Serbia sembrano appartenere al passato.
UN BILANCIO DEL PAPATO DI BERGOGLIO
La «politica estera» della Chiesa cattolica è in primo luogo rivolta a promuovere i suoi propri interessi nel mondo, esattamente come la politica estera di qualunque altro Paese. Anche qui, però, i risultati del pontificato Bergoglio non sembrano brillanti.
Fin dall’inizio, il primo papa gesuita della storia ha affermato di voler completare la missione di Matteo Ricci, il gesuita che, a cavallo tra il XVI e XVII secolo, fu quasi sul punto di convertire la Cina al cattolicesimo, prima di essere sconfessato dal Papa su istigazione di domenicani e francescani.
Bergoglio non aveva certo l’ambizione di convertire i cinesi, ma aveva quella di arrivare finalmente a un accordo con Pechino sul governo dei cattolici dell’Impero di Mezzo.
Dopo più di mezzo secolo di dissidi, picche e ripicche; tuttavia, nonostante lunghi anni di trattative, segrete e palesi, cominciate tra l’altro almeno all’epoca di Wojtyła, quell’accordo non c’è stato.
Non per colpa di Bergoglio, almeno a quanto se ne sa, ma probabilmente di certi ambienti cattolici cinesi e/o della regione che si sono rivelati più sensibili alle pressioni degli Stati Uniti che a quelle del Papa.
Per quanto riguarda il dossier dei rapporti con le Chiese ortodosse, la situazione è drasticamente peggiorata dal 2013. Di nuovo, la responsabilità non ricade su Bergoglio, almeno non interamente.
Il dialogo con gli ortodossi è sempre stato difficile perché quella branca del cristianesimo ha molte teste, tutte gelose le une delle altre, e parlare con gli uni significa contrariare gli altri.
Paolo VI cominciò nel 1965 con il patriarca di Costantinopoli, primus inter pares secondo la tradizione, ma non secondo gli altri patriarchi. Giovanni Paolo II pestò i calli al patriarcato ortodosso di Mosca con la riorganizzazione delle diocesi russe (cattoliche, ovviamente), che fu interpretata come l’inizio di un tentativo di proselitismo di impronta polacca.
Francesco ha cercato di barcamenarsi incontrando sia il patriarca russo che quello di Costantinopoli, col risultato di indispettire tutti e due.
Poi ci si è messa di mezzo la guerra in Ucraina: l’allora presidente Petro Porošenko ha di fatto nazionalizzato la Chiesa ortodossa ucraina, iniziando un processo completato poi dal suo successore Volodymyr Zelensky con l’espropriazione di fatto di quel che rimaneva dell’autorità (e dei beni) del patriarcato di Mosca in terra ucraina.
In quell’occasione, tra l’altro, Bergoglio si schierò inequivocabilmente a fianco della Chiesa russa.
La nascita della Chiesa nazionale ucraina ha ravvivato le ostilità all’interno del mondo ortodosso: il suo riconoscimento da parte del patriarcato di Costantinopoli ha provocato la rottura con Mosca, e Roma si è ritrovata con le pive nel sacco.
DEEP STATE E POLITICA INTERNA
Per quel che riguarda la «politica interna» della Chiesa cattolica, limitiamoci a due questioni: la prima, meno importante anche se comunque significativa, è lo stallo nel dossier della riforma della Curia; la seconda, probabilmente decisiva per il futuro della Chiesa, riguarda il rapporto con i fedeli, in particolare americani, francesi e africani (e, molto probabilmente, italiani).
Jorge Mario Bergoglio era stato eletto col mandato preciso di ripulire le stalle di Augia della Curia romana – il «deep state» del Vaticano – dopo il gran rifiuto di Ratzinger, impotente e schiacciato da quell’insormontabile prova.
Anche in questo caso, la responsabilità di Bergoglio deve essere relativizzata: tutti i Papi, almeno da Paolo VI in poi, si sono chi più chi meno cimentati in questa impresa senza grande successo.
Chi ebbe i migliori risultati (o almeno non i peggiori) fu l’arcivescovo di Firenze Giovanni Benelli, nominato a quell’incarico da papa Montini (Paolo VI) nel 1967; ma l’ostilità era così forte che Benelli fu costretto a recarsi al lavoro con i mezzi pubblici dopo aver trovato più volte le gomme della sua Alfa Romeo tagliate nel parcheggio del Vaticano, come racconta il biografo di Montini, Peter Hebblethwaite.
Secondo un altro studioso della Chiesa, Eric Hanson, «il tentativo di Benelli di portare un po’ di efficienza settentrionale nella Curia» potrebbe essere stato all’origine della sua mancata elezione a Papa nei due conclavi del 1978, nei quali partiva favorito.
LA CHIESA PARALLELA DEGLI STATI UNITI
L’altra questione è assai più rilevante, potenzialmente esplosiva: riguarda il rapporto con la Chiesa cattolica degli Stati Uniti, che si è smagliato in questi dodici anni di pontificato di Francesco, in parte anche a causa della sua malcelata antipatia per l’America del Norte, comune a tanti latino-americani.
Questo sfilacciamento è culminato nella progressiva creazione di quella che si potrebbe definire una sorta di Chiesa cattolica parallela negli Stati Uniti: uno scisma non scismatico, però, perché l’intenzione dei cattolici apertamente ostili a Bergoglio che l’hanno costruita non è di uscire dalla Chiesa ma, al contrario, di riportare la Chiesa a quella che loro ritengono essere la sua vera natura: tradizionalista, conservatrice, elitaria, e possibilmente anche un po’ razzista. Make the Church Great Again potrebbe essere il loro slogan.
Di quella «Chiesa» fanno parte una serie di prelati scandalizzati dalle «aperture» di Papa Francesco su certi temi dichiarati «non negoziabili» dai suoi predecessori (aperture, si noti, soprattutto verbali, ma raramente seguite da fatti concreti), nonché una serie di personaggi politici dell’estrema destra – Steve Bannon e JD Vance in prima fila – che fanno da trait d’union tra fedeli, prelati e Casa Bianca.
Papa Francesco è sempre stato molto netto nella difesa degli immigrati, dei perseguitati, delle minoranze, dei carcerati, insomma di tutte quelle persone che gli scismatici-non-scismatici americani detestano.
Ma le parole del Papa non li hanno neppure scalfiti, al punto che il loro capo andrà a far bella mostra di sé (e forse a sostenere la sua causa con i cardinali del futuro conclave) davanti al feretro del suo nemico defunto.
(Estratto da Appunti)