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Cento Domeniche

La lezione di Cento domeniche di Antonio Albanese

Nei cinema italiani ci sono due prodotti nazionali, Cento domeniche di Antonio Albanese e Palazzina Laf di Michele Riondino, accomunati da un tema assai intrigante: i "volenterosi carnefici" su Popolare di Vicenza e non solo. L'articolo di Giorgio Meletti per la newsletter Appunti di Stefano Feltri

 

In questi giorni nei cinema italiani ci sono due prodotti nazionali, Cento domeniche di Antonio Albanese e Palazzina Laf di Michele Riondino, diversi da tutti gli altri ma tra loro accomunati da un tema assai intrigante.

Diversi perché, cosa più unica che rara, non sono ambientati a Roma ma nei luoghi natali dei due registi (il lago di Como e Taranto) e parlano della società italiana, quella vera, situata al di fuori del raccordo anulare della capitale, alle prese con un epocale, cioè strutturale e irreversibile, impoverimento.

Non parlano del tempo libero di borghesi annoiati ma di lavoratori che vivono con fatica. Inoltre non hanno i soliti quattro noti tra gli attori protagonisti.

Il tema che li accomuna è quello che chiameremo dei “volenterosi carnefici”. Due registi che si possono sbrigativamente definire di sinistra, sensibili alle tematiche sociali, dicono all’unisono la stessa cosa (chissà se a conoscenza l’uno delle intenzioni dell’altro), che nel campo progressista suona un po’ come una bestemmia in chiesa: le carogne non sono solo i padroni e i capi delle aziende, anche i livelli intermedi e quelli più bassi riescono a fare schifo.

Albanese racconta la storia di un operaio in pensione che viene truffato dalla sua banca e perde i  risparmi. A lui il merito di aver portato sullo schermo un tema sociale che alla fine del 2015 occupò le prime pagine dei giornali e le prime serate della tv. Ma ecco che Antonio Riva, il pensionato truffato, non se la prende con i banchieri, con gli Zonin e simili che pure l’hanno fatta franca.

Lui ce l’ha con il direttore di filiale, proprio lui, quello lì, che lo ha convinto a non vendere le azioni (che il poveretto neppure sapeva di avere) della banca decotta, perché “volano”, e quindi a indebitarsi per 30 mila euro per pagare le spese del matrimonio della figlia.

Riva, che non ha fatto i corsi di educazione finanziaria caldeggiati dalla Banca d’Italia, si fida.

Naturalmente le azioni si volatilizzano e il debito resta.

La morale di Albanese è netta: le banche hanno potuto far perdere ai risparmiatori molti miliardi di euro perché impiegati e quadri agli sportelli si sono prestati. Per paura, per convenienza o per ignoranza sono stati complici e si dichiarano vittime.

Riondino racconta, sullo sfondo di una storia vera (il reparto confino detto “Palazzina Laf” per il quale già prima dell’esplosione del 2012 fioccarono condanne penali per diversi dirigenti dell’Ilva a cominciare dal padrone Emilio Riva), la vicenda di un operaio di Taranto che accetta di fare la spia per l’azienda.

Sono molti i lavoratori che si fanno corrompere dal padrone e molti i dirigenti intermedi e i quadri che si mettono al servizio del padrone e dei capi.

L’operaio spia, nella magistrale interpretazione dello stesso Riondino, attore alla sua prima prova da regista, non è cattivo, non è una carogna, è solo profondamente e irrimediabilmente stupido, e la stupidità lo porta ad abbracciare con entusiasmo l’ideologia del profitto come variabile indipendente e dei lavoratori come scansafatiche e sabotatori dell’azienda.

Riondino, figlio di un operaio dell’Ilva, affronta con coraggio l’indicibile: date per lette le colpe gravissime della classe dirigente, e ricordato che il fattore chiave della dissoluzione di quella che era la prima acciaieria d’Europa è il cambiamento del mercato mondiale dell’acciaio, quanto pesa nella amara vicenda di Taranto la stupidità e l’ignoranza dei lavoratori? E, seconda domanda, dov’erano i sindacati?

Un paio d’anni fa ho proposto il tema dei “volenterosi carnefici” a proposito del crollo del ponte Morandi di Genova, nel 2018.

Intanto spiego la locuzione, che è tratta dal libro intitolato appunto I volenterosi carnefici di Hitler, scritto negli anni Novanta dallo storico americano Daniel Goldhagen.

Con una rigorosa ricerca storica sui soldati e civili tedeschi che hanno partecipato all’Olocausto, Goldhagen dimostra che costoro non hanno “obbedito agli ordini”, magari per paura, ma che sono stati complici consapevoli, convintamente antisemiti.

Il ponte Morandi non potevano farlo crollare i signori Benetton da soli o i loro top manager.

La silenziosa obbedienza con cui decine e centinaia lavoratori di diversi livelli si sono guadagnati carriera e tenore di vita, non è stata dettata solo dalla paura ma anche dall’adesione all’ideologia dominante del profitto come motore indiscutibile del benessere generale a cui è giusto sacrificare anche vite e destini.

Un giorno forse questi due film saranno ricordati come un segno dei tempi, un sintomo del vento che cambia.

Infatti non dobbiamo fare l’errore di credere che la logica dei “volenterosi carnefici” sia assolutoria nei confronti di Hitler, dei banchieri, dei Benetton o dei Riva e di certi politici. Al contrario.

I ceti più bassi e sottomessi hanno un diritto naturale alla stupidità e all’ignoranza, e anche alla vigliaccheria.

Aver fatto leva sulla loro debolezza è la colpa suprema della classe dirigente e rende più grave la sua bancarotta morale e le sue responsabilità nel disastro dell’economia italiana.

(Estratto dal blog Appunti di Stefano Feltri)

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