Skip to content

Rushdie

La lezione del caso Rushdie

Rushdie e non solo. Esiste nell’Islam una vistosa e irrisolta questione, quella della tolleranza, che non riguarda solamente regimi fanatici come quello di Teheran, ma coinvolge una fetta significativa della comunità islamica mondiale. Il corsivo di Marco Orioles

 

“Informo tutti i valorosi musulmani del mondo che l’autore dei Versetti satanici, un libro scritto, edito e pubblicato contro l’islam, il profeta dell’Islam e il Corano, insieme a tutti i curatori e gli editori consapevoli del suo contenuto, sono condannati a morte. Esorto tutti i coraggiosi musulmani ovunque si trovino nel mondo a ucciderli senza indugio, così che nessuno più oserà insultare le sacre credenze dei musulmani. E chiunque sarà ucciso per questa causa sarà un martire. Nel frattempo, se qualcuno avesse accesso all’autore del libro, ma non fosse in grado di eseguire lui stesso la sentenza, che informi il popolo così che sia ucciso per le sue azioni”.

Era il 14 febbraio 1989 quando un morente ayatollah Khomeini pronunciò dalle onde della radio di stato iraniana questa fatwa contro Salman Rushdie e tutti coloro i quali avrebbero collaborato alla diffusione di un libro giudicato “blasfemo”. La fatwa non fu mai ritirata dal regime, ma era stata anzi negli ultimi tempi confermata dall’attuale leader Ali Khamenei, mentre zelanti funzionari di stato provvedevano a rimpinguare la taglia milionaria sulla testa di Rushdie.

Questa clamorosa sentenza di morte sarebbe stata applicata, come sappiamo, pochi giorni fa, anche se in maniera imperfetta, da un musulmano americano di origini libanesi, che ha aggredito a colpi di lama lo scrittore durante un festival letterario.

C’è un problema colossale nell’editto di S. Valentino del fondatore della repubblica islamica: con esso si emise una condanna a morte extraterritoriale nei confronti di un letterato straniero e laico. La pretesa di applicare gli assurdi interdetti islamici contro qualcuno che islamico non è, e che non vive nelle terre ove si osserva il Corano, delinea bene il perimetro dell’intolleranza di certi segmenti dell’Islam contro la libertà di espressione, un tema che agli europei è familiare non solo perché Rushdie trovò rifugio in Gran Bretagna ma anche per via del caso delle famose vignette su Maometto, anch’esse giudicate blasfeme, di Charlie Hebdo.

Anche i disegnatori di Charlie Hebdo non erano musulmani e non abitavano a Teheran o alla Mecca. Ciononostante Al Qaeda emise nei confronti del direttore Stephan Charbonnier una sentenza di morte incorniciandola in un manifesto intitolato “Wanted” pubblicato su Inspire, il magazine patinato dell’organizzazione terroristica allora guidata da Ayman al-Zawahiri. Quella sentenza di morte fu applicata inesorabilmente a Parigi il 7 gennaio 2015, quando due jihadisti di seconda generazione, i fratelli Kouachi, penetrarono armati di kalashnikov nella sede del famoso settimanale satirico e fecero strage di mezza redazione, direttore incluso.

Esiste un video che mostra i due terroristi, all’uscita della redazione, a blitz avvenuto, mentre esultano urlando a gran voce “abbiamo vendicato il profeta Maometto, abbiamo ucciso Charlie Hebdo”.

Questo particolare ci riporta alla fatwa di Khomeini che, non meno del manifesto di Al Qaeda, rappresentò un formidabile strumento di incitamento alla violenza religiosamente giustificato.

Come fino all’ultimo respiro non smise di sottolineare Oriana Fallaci, esiste nell’Islam una vistosa e irrisolta questione, quella della tolleranza, un problema che non riguarda solamente regimi fanatici come quello di Teheran, ma coinvolge una fetta significativa della comunità islamica mondiale. Quella che ad esempio nella patria della democrazia, la Gran Bretagna, mise al rogo le copie dei Versetti satanici o che nel lontano Pakistan cinse d’assedio l’Information Center degli Stati Uniti al grido di “Rushdie sei un uomo morto”.

O quella che, ad eccidio della redazione di Charlie Hebdo appena consumato, vide molti musulmani francesi precipitarsi sui social per ribaltare il senso dell’hashtag che in quelle ore raggiunse vette di popolarità, “Io sono Charlie” trasformato in “Io non sono Charlie”.

Nell’era della globalizzazione e del dialogo incessante tra civiltà e culture non è possibile ammettere che alcuni gruppi si arroghino il diritto di mettere il bavaglio a degli scrittori o vignettisti non musulmani, pretendendo da loro un’adesione cieca a tabù che non rientrano nelle loro corde.

Da questo punto di vista, non ci si può sorprendere che la fatwa di Khomeini sia stata applicata più di 33 anni dopo. È la logica conseguenza di un problema irrisolto che continua a dare ragione a chi predica l’esistenza di un irrimediabile scontro di civiltà tra Islam e Occidente.

È un lusso che non ci possiamo più permettere.

Torna su