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La legislatura inciamperà sui referendum per la giustizia?

Il nodo dei referendum della giustizia nel corso della legislatura. I Graffi di Damato

 

Sommersa dall’immagine del “nonno al servizio delle istituzioni”, anche come presidente della Repubblica se ne sarà il caso, la conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi è stata sottovalutata in un passaggio importante attivato dal giornalista di Radioradicale Lanfranco Palazzolo.

Quest’ultimo, senza farsi distrarre, diciamo così, dalla giostra del Quirinale piena di luci e di rumori, dalla quale scendono e salgono i candidati più disparati e anche improbabili alla vicina successione al presidente ostinatamente indisponibile, almeno sinora, ad una conferma o prolunga, ha chiesto al presidente del Consiglio di pronunciarsi sui referendum, particolarmente quelli della giustizia, promossi dagli eredi di Marco Pannella e dai leghisti. Sì, anche dal partito di Matteo Salvini, finalmente approdato al garantismo dopo il cappio sventolato nell’aula di Montecitorio sui banchi del Carroccio mentre la Procura di Milano chiedeva e otteneva da un un unico giudice delle indagini preliminari – come da clamorosa e autorevole testimonianza recente di Guido Salvini sul Dubbio – arresti in serie di sospettati di mani sporche nell’uso dei soldi destinati alla politica. L’inchiesta si chiamava infatti enfaticamente “Mani pulite”, come forse oggi non si potrebbe con le nuove disposizioni di stampo europeo a tutela della presunzione di innocenza o di non colpevolezza, come preferite, sino a condanna definitiva.

Neppure in questo passaggio della conferenza stampa, delicato come pochi altri per la natura eterogenea della maggioranza emergenziale di governo, Draghi ha esitato. Egli ha seccamente ribadito, in vista dell’ultima tappa del percorso preparatorio dei referendum, davanti alla Corte Costituzionale, la decisione del governo di non opporsi, cioè di non contrastare l’iniziativa tanto temuta invece dalle toghe più politicizzate, o in vista, e da almeno due partiti della maggioranza, che non hanno voluto dare nessuna copertura alla raccolta delle firme: il Pd e il Movimento 5 Stelle. Eppure anche i grillini, e non solo i piddini, con cui fanno rima, hanno cominciato a provare sulla loro pelle – e persino a scusarsene qualche volta – l’acido dell’ingiustizia nella gestione di inchieste e processi di presunta corruzione e simili. Il rapporto con la magistratura rimane distorto, timoroso, subalterno e altro ancora sia per il partito – il Pd – tornato in testa ai sondaggi sia per il MoVimento che si vanta ancora in questo Parlamento di essere quello di maggioranza relativa, anche se di fatto non lo è più, con tutti gli abbandoni che ha subiti e quelli che stanno maturando nel finale di questa legislatura. Che gli stessi grillini hanno trasformato incautamente in una tonnara con quel taglio robusto di seggi apportato alla Camera e al Senato prossimi venturi.

Come si fa in questa legislatura ridotta – ripeto – ad una tonnara, dove deputati e senatori sanguinano di paura sapendo di non poter essere confermati, ad evitare il passaggio dei referendum sulla giustizia scomodissimo per i due principali partiti della maggioranza? Non è una domanda da Rischiatutto. La risposta è facile e già sperimentata: nel 1972 per sfuggire al referendum sul divorzio, temuto sia dalla Dc antidivorzista sia dal Pci divorzista, e nel 1987 per sfuggire ai referendum sulla responsabilità civile dei magistrati e contro la produzione di energia nucleare. In particolare, la risposta sta nella sovrapposizione delle elezioni anticipate, che comportano il rinvio delle prove referendarie eventualmente indette.

In una legislatura – ripeto ancora – ridotta ad una tonnara le elezioni anticipate sono ancora più sanguinanti del solito. Sono una decimazione che obbligano i vertici politici che vi sono interessati a operazioni di vera e propria mimetizzazione, per evitare di essere travolti dalle proteste interne ai loro partiti e gruppi parlamentari. Si sono pertanto sprecate negli ultimi tempi le prese ufficiali di posizione di Enrico Letta e di Giuseppe Conte contro l’interruzione della legislatura, reclamata invece a gran voce dalla sorella capitana dei “fratelli d’Italia” Giorgia Meloni. Con la quale – guarda caso – da qualche settimana a questa parte tanto Letta quanto Conte navigano come in crociera, scambiandosi battute, sorrisi e inviti. Lo fanno – direi – così imprudentemente e sfrontatamente da avere costituito anche anche un caso mediatico e politico, su cui hanno scritto articoli fior di esperti finendo però – debbo dire con franchezza – più nel colore che nella sostanza di una vera analisi.

Quella che secondo me ci è andata più vicina a capire la situazione, a vedere la politica scivolare sulle bucce imputridite della giustizia pur non citate esplicitamente, e a tradurne i progetti altrui in parole chiare, non cifrate come la maggior parte dei messaggi in questi tempi di corsa al Quirinale, è l’ex ministra, e renziana di ferro, Maria Elena Boschi. “So per certo – ha detto – che Letta e Conte hanno bisogno delle elezioni anticipate, come le vorrebbe la Meloni”. “Da sempre – ha aggiunto pensando alle votazioni di fine gennaio a Montecitorio per il Quirinale – maggioranza parlamentare e maggioranza presidenziale sono due aggregazioni diverse, non necessariamente convergenti. Se si va al voto è per Letta, Meloni, Conte”. Più che un ex ministra, sembra aver sentito un oracolo.

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