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La guerra fredda tra Stati Uniti e Cina per il Pacifico

Nei confronti della Russia, gli Stati Uniti hanno già raggiunto i loro obiettivi, mentre con la Cina hanno ancora molte questioni in sospeso, primo tra tutte il Pacifico. Il post di Gianmarco Volpe, global desk chief di Agenzia Nova

 

Le Isole Salomone si trovano dall’altra parte del mondo e raramente vi sarà capitato di sentirne parlare. In queste ore nella capitale Honiara è atteso Kurt Campbell, che è una delle figure più influenti per la definizione della politica estera degli Stati Uniti. È l’esperto di Asia e Pacifico del Consiglio di sicurezza nazionale, è un democratico ma è considerato un vero falco anti-cinese.

Al primo ministro delle Salomone, che si chiama Manasseh Sogavare, Campbell chiederà conto dell’accordo che questi ha firmato di recente con la Cina, e che prevede la possibilità per Pechino d’inviare truppe e poliziotti nell’arcipelago e di farvi attraccare le proprie navi militari. Gli americani non ne sono contenti, e con essi gli australiani, i giapponesi e i neozelandesi: i quattro governi a inizio settimana hanno firmato un comunicato congiunto nel quale hanno espresso il comune timore che il patto di sicurezza con la Cina possa essere una minaccia per un Indo-Pacifico (gli Usa oggi lo chiamano così, a rifletter bene la loro rete di alleanze) “libero e aperto”.

Le Isole Salomone s’inscrivono così alla lista dei tanti luoghi del mondo che oggi sono sul fronte della nuova guerra fredda, quella tra Stati Uniti e Cina.

C’è il Pakistan, dove il governo filo-cinese di Imran Khan è caduto e ora il Paese è controllato Shehbaz Sharif, che promette una politica estera più bilanciata. Khan, popolarissimo ex campione di cricket, ritiene di esser stato vittima di un complotto ordito dagli Usa, ma in realtà – come sempre da quelle parti – decisivo è stato il ruolo dell’esercito, cui non piaceva evidentemente l’idea di tagliare del tutto i ponti con il Pentagono.

C’è lo Sri Lanka, finito nella trappola del debito cinese, che vive una crisi economica e politica gravissima e che si vede ora rifiutare un prestito dal Fondo monetario internazionale.

Ci sono fronti assai più caldi: in Myanmar il colpo di Stato militare del 2021 è stato guardato con grande favore da Pechino e oggi Washington aiuta la resistenza; in Etiopia il governo di Abiy Ahmed è appoggiato dalla Cina, i ribelli del Tigré dagli Stati Uniti.

Meglio non allontanarsi, però. L’epicentro dello scontro per la supremazia globale è il Pacifico. E mentre gli occhi del mondo sono puntati sull’Ucraina (che pure di questo scontro è un fronte caldo, ma periferico), a Washington e a Pechino sanno bene che la vera posta in palio è il controllo delle rotte commerciali e delle riserve naturali in quell’area che tra qualche anno sarà il cuore pulsante del pianeta. La Cina sa bene che per vincere la corsa deve assicurarsi il controllo di Taiwan e del Mar Cinese Meridionale, per una legge non scritta della geopolitica secondo la quale le grandi potenze devono vivere in un ambiente vicino sicuro, nel quale non possono essere minacciate: per questo l’ascesa della potenza Usa fu preceduta a fine Ottocento dalla guerra ispano-americana nei Caraibi e per questo oggi la Russia vuole (avrebbe voluto) prendersi l’Ucraina.

Mentre gli occhi del mondo sono puntati sull’Ucraina, dicevamo, da quest’altra parte del globo continuano a succedere cose importanti. La Cina ha accelerato lo sviluppo del suo arsenale nucleare – lo ha rivelato in questi giorni il Wall Street Journal – avendo evidentemente tratto dalla guerra in corso la lezione che la deterrenza atomica ti consente di fare quel che vuoi.

La Corea del Sud ha eletto un nuovo presidente, Yoon Seol-yeol, che prima ancora d’insediarsi ha mandato una delegazione a Washington per trattare, secondo la stampa locale, lo stazionamento di bombardieri e sottomarini nucleari americani nel suo Paese.

Si vanno rafforzando due alleanze che sono entrambe candidate a trasformarsi nella Nato del futuro, la Nato del Pacifico: l’Aukus (Australia, Regno Unito, Stati Uniti) cui potrebbe presto aderire il Giappone, e il Quad (India, Australia, Giappone, Stati Uniti) nel quale invece potrebbe entrare la Corea del Sud. È probabile che a un certo punto i due formati finiranno col fondersi.

E quindi no, gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di entrare in guerra con la Russia in Ucraina. No, non ci sarà una terza guerra mondiale. No, gli Stati Uniti non hanno interesse a perpetuare questa guerra in eterno. Non solo perché hanno bisogno di destinare fondi al contenimento della Cina nel Pacifico, ma anche perché gli effetti economici delle sanzioni alla Russia lo stanno avvertendo pure le famiglie americane (+8,5 per cento d’inflazione nel mese di marzo, mai così alta negli ultimi quarant’anni) che sono, in ultima istanza, quelle che il prossimo autunno andranno a votare per le elezioni di medio termine e che, con ogni probabilità, toglieranno al Partito democratico il controllo del Congresso, privando così l’amministrazione Biden di un fondamentale appoggio per il perseguimento della sua agenda.

Non c’è dubbio che il presidente degli Stati Uniti avrebbe ben piacere il 9 maggio a vedere Putin esposto in un cappotto di legno nella Piazza Rossa, ma non a costo della sua sopravvivenza politica, né a quello di danneggiare gli interessi strategici nazionali di lungo periodo. Del resto, con questa guerra gli Usa hanno già raggiunto i loro obiettivi: Donbas o non Donbas, la Russia è destinata ad affondare come il suo Moskva e ad allontanarsi irrimediabilmente dall’Europa. La Cina, invece, è lì per restare.

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