La parola democrazia contiene molte parole. A voler essere zelanti, la parola democrazia assume interamente il proprio significato solo quando accoglie le parole di tutti, anche di coloro che ne contestano il funzionamento o l’esito. Così la polis, antica e moderna, è il luogo del dialogo tra parole diverse. Così il Parlamento è lo spazio in cui si parla e le parole di tutti sono ospitate, affinché la vita democratica di un popolo sviluppi il proprio fisico nell’esercizio quotidiano della dialettica.
La democrazia si fonda su un atto di fiducia verso la parola. Mentre i regimi non-democratici (democrature o totalitarismi che siano) sono tutti costruiti, nessuno escluso, sull’uso sistematico e normalizzato della menzogna, la democrazia valorizza la libertà di parola, proteggendola con le leggi. Noi pensiamo, preghiamo, sogniamo con le parole, e la nostra vita sociale e associativa si fonda sul diritto di poter scambiare liberamente parole. In linea di principio, l’ascolto delle parole degli altri precede il pronunciamento delle nostre, anche perché all’opposto il mondo sarebbe pieno di gente che parla a sé stessa. Cosicché davvero in democrazia, per dirla con Guido Calogero, il dovere di ascoltare le parole degli altri precede il diritto di pronunciare le proprie.
L’imbarbarimento della vita sociale muove sempre attraverso la corruzione del linguaggio. Nel secolo scorso, la prima avvisaglia della crisi di alcuni regimi democratici coincise, in Italia e in Germania ad esempio, con l’inquinamento linguistico del confronto. L’Italia giolittiana che, pure lentamente, muoveva sul sentiero della democratizzazione dello Stato liberale, divenne l’Italietta nei caratteri tipografici di libri e giornali. Dallo sprezzo del linguaggio alla sua brutalità fu meno di un attimo, la stessa frazione di secondo che passò dalla violenza delle parole a quella delle squadracce fasciste che prepararono l’Italiaccia mussoliniana.
Il Covid-19 (e 20 e 21), se ci ha negato la prossimità sociale, non l’ha avuta vinta sulle parole. Le nostre giornate sono ormai da mesi piene zeppe di call a distanza, durante le quali, se vogliamo farci capire, ci è richiesta una chiarezza nuova, perché non supportata da quel linguaggio del corpo così essenziale nei rapporti umani. Mentre sui social network le lingue del mondo continuano a tribalizzarsi, siamo chiamati a gestire l’assenza della presenza fisica con riunioni in video affidate alla nostra capacità d’intenderci attraverso il linguaggio: è uno dei tanti paradossi della nostra epoca.
Il presidente Joe Biden nel suo Inaugural Address ha esordito affermando: “This is America’s day. This is democracy’s day”. Il suo predecessore, qualche giorno prima, aveva aizzato i suoi supporter più fanatici affinché raggiungessero Capitol Hill e negassero al Parlamento americano di parlare la lingua della democrazia che è sempre quella delle leggi. Negare per settimane la validità delle elezioni dello scorso novembre, spregiando ogni responso formale che ne certificava la regolarità legale, è stato possibile solo a prezzo di violentare, ancora una volta, il linguaggio.
In precedenza il presidente Donald Trump aveva intrattenuto un conflitto permanente col direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases Anthony Fauci (nonni paterni di Sciacca, nonna materna di Napoli), centrato proprio sull’uso del linguaggio nell’emergenza sanitaria. Un conflitto tra politica e scienza piuttosto classico e che pure, attraverso l’utilizzo trumpiano dei social network, ha assunto connotati inquietanti.
Il linguaggio che unisce, nella sua possibilità di comprensione, i membri di una comunità è come l’acqua che circola in un sistema complesso di condotte, dagli acquedotti ai rubinetti di casa. Corrompere il linguaggio è come inquinare l’acqua che beviamo: anche se l’azione dell’inquinamento è diretta da pochi, addirittura da uno soltanto, la tossicità introdotta, una volta in circolazione, riguarda tutti. E a tutti spetta il dovere di depurarla.
Antonio Funiciello