È capitato a Giorgia Meloni, fortunata anche in questo, di potere riscattare il ruolo di presidente del Consiglio dopo il colpo infertogli da Giuseppe Conte. Che a suo tempo scaricò il suo ministro dell’Interno Matteo Salvini, contribuendo anzi a mandarlo sotto processo, quando la magistratura gli contestò la vicenda della nave Open Arms. Processo poi vinto da Salvini in primo grado con una sentenza di assoluzione piena dalle accuse cervellotiche di sequestro di migranti e altro e impugnata con la solita ostinazione dalla magistratura scommettendo direttamente sulla Cassazione, saltando cioè il secondo grado di giudizio in appello.
Informata giudiziariamente dell’archiviazione praticamente disposta della parte che la riguarda delle indagini sul rimpatrio del generale libico Almasri dopo un breve arresto in Italia disposto dalla Corte penale internazionale, e della ormai scontata richiesta invece di processare i ministri dell’Interno e della Giustizia e il sottosegretario Alfredo Mantovano, principale collaboratore della premier con la delicatissima delega dei servizi segreti, la Meloni ha duramente, pubblicamente protestato. Ha rifiutato l’immagine di “Alice nel Paese delle meraviglie”, praticamente confezionatale dalla magistratura, o di un presidente del Consiglio, rigorosamente al maschile come lei preferisce leggere e sentire, “a sua insaputa”. Ed ha reclamato di condividere la sorte dei due ministri e del sottosegretario, sia pure in un processo che non si farà perché la maggioranza ha i numeri e la volontà di impedirlo nel preliminare passaggio parlamentare. In occasione del quale la Meloni sarà anche fisicamente partecipe, accanto ai suoi ministri, ripeto, e al suo sottosegretario.
È una lezione, non solo di stile, che meritavano tanto la politica quanto la magistratura. Gli attacchi che la premier ha già ricevuto e quelli che sicuramente seguiranno sono stati e saranno utili ad evidenziarne maggiormente il coraggio.