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Kirk tanto vicino al presidente Trump quanto indifeso dall’apparato di sicurezza

Perché pure l’assassinio di Charlie Kirk si presta a inquietanti sospetti, interrogativi, misteri e simili. Il corsivo di Damato pubblicato sul quotidiano Libero

 

Charlie Kirk con quel cognome peraltro così facile da scrivere, pronunciare e ricordare – ammazzato con un colpo di fucile di millimetrica precisione al collo da un certo Tyler Robinson, più giovane di lui ma già abbastanza intossicato dall’antitrumpismo, per quanto cresciuto in una famiglia non proprio di sinistra – poteva ben essere considerato un delfino politico del presidente americano. Che, col suo vice James David Vance, lo rimpiange come “leggendario”.

Di un reale, possibile o solo immaginato erede di Trump, o soltanto il più generoso, disinteressato seguace, già promosso da qualche tempo alle dimensioni delle gigantografie nella cartellonistica elettorale e propagandistica del presidente americano, si poteva, anzi si doveva ritenere scontata una protezione adeguata da parte degli apparati federali di sicurezza. Invece non n’è risultata alcuna, almeno sinora. O non abbastanza efficiente da risparmiargli la fine che ha fatto, in piena attività trumpistica, in un incontro pubblico preannunciato in un campus universitario. Si stenta a crederlo ma è così. E qualcuno, penso, dovrebbe pur risponderne al presidente degli Stati Uniti. Che, indignato da tanta violenza e addolorato da tanta perdita, non può limitarsi a invocare la pena di morte per l’attentatore e ad annunciare una medaglia alla memoria del morto.

Come tutte le cose direttamente o indirettamente riferibili agli apparati naturalmente segreti di sicurezza, anche o soprattutto americani per l’esperienza che essi hanno nella mancata o insufficiente protezione di chi doveva essere appunto protetto, anche al massimo livello istituzionale, già prima e anche dopo l’assassinio del mitico presidente John Kennedy nel 1963, pure l’assassinio di Charlie Kirk si presta a inquietanti sospetti, interrogativi, misteri e simili.

Siamo nella dietrologia, d’accordo, con tutti i limiti che ha questa specie di pratica o di scienza. Ma la buonanima di Giulio Andreotti, che se ne intendeva praticamente, culturalmente e storicamente, scrivendone oltre che parlandone, usava dire che a pensare male si fa peccato ma s’indovina.

Qualcuno, in verità, gli attribuì anche qualche avverbio come sempre, spesso eccetera. Invece Andreotti non attenuò o limitò la casistica. Disse che s’indovina e basta, paradossalmente anche a costo di alimentare la dietrologia applicata contro di lui dai magistrati che lo avrebbero indagato e processato per mafia e altro, alla fine assolvendolo con formula apparentemente piena. Ma trasformata dagli avversari ed ex inquirenti, fra le proteste dei suoi avvocati e la sua stanca rassegnazione, in una specie di assocondanna: metà assoluzione, appunto, e metà condanna diluita o dissolta nella prescrizione.

In una congiuntura non solo americana ma internazionale come questa, dovrebbe destare non poca inquietudine il solo sospetto che un, anzi il presidente degli Stati Uniti non sia direttamente o indirettamente protetto a sufficienza. E ciò pur dopo essere scampato ad un attentato prima della sua seconda elezione, con un proiettile anch’esso sparato contro il collo ma senza la precisione di Robinson contro il “leggendario”, ripeto, Kirk: parola dello stesso Trump. Un presidente non sufficientemente protetto è di per sé intimidibile, al di là delle sue parole e dei suoi gesti.

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