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Indo-pacifico

Perché l’Italia non dichiara una sua Zona Economica Esclusiva (Zee) marittima?

All’Italia conviene dichiarare una sua Zona Economica Esclusiva marittima? L’articolo del CF, Emiliano Magnalardo, Stato Maggiore Marina Militare (Capo Sezione Strategia Marittima ed Industriale, Ufficio Politica Marittima e Relazioni Internazionali, Dipartimento Sviluppo dello Strumento Marittimo).

 

Il termine lawfare, attribuito al Brigadier Generale Charles J. Dunlap, Jr., è definito come “l’uso o l’abuso della legge e dei procedimenti legali quale sostituto degli strumenti militari tradizionali per raggiungere obiettivi militari”.

Storicamente le Nazioni più deboli hanno sempre cercato di utilizzare i processi legali internazionali, l’opinione pubblica e finanche il supporto politico interno di Stati terzi per condizionare il potere politico o neutralizzare il vantaggio tecnologico di uno Stato opponente. Un esempio datato di uso del diritto internazionale per ottenere e sigillare un vantaggio strategico è il Congresso di Parigi del 1856, che sanciva i termini della fine del conflitto di Crimea, deciso a limitare fortemente il potere navale russo smilitarizzando il Mar Nero.

Più recentemente, già dal 1999 nel documento “Unrestricted Warfare”, l’esercito di Liberazione cinese definiva i meccanismi che una nazione come la Cina avrebbe potuto impiegare per battere un avversario tecnologicamente superiore, come gli Stati Uniti. In tal senso, venne introdotto e descritto il concetto di international law warfare quale “seizing the earliest opportunity to set up regulations.”

Con questa chiave di lettura il lawfare assume due declinazioni. Un’accezione attiva (o assertiva) che prevede l’applicazione spregiudicata di una norma a proprio favore ai danni di attori terzi e un’altra passiva (o reattiva), tesa a condizionare la legislazione domestica di una stato terzo più avanzato o quella internazionale sostenendo che una determinata tecnologia, arma o linea d’azione sia in contrasto con la norma vigente.

Tale azione, attiva o passiva, permette oggigiorno a “Davide” di battere nuovamente “Golia”, senza dover neppure usare la fionda. Il “successo” del lawfare può raggiungere risultati concreti che limitano significativamente le capacità militari di uno Stato più forte fornendo, al contempo, un vantaggio strategico ed operativo definito nello spazio e nel tempo a quello più debole o tecnologicamente meno avanzato.

Nel contesto marittimo, la disinvolta ed assertiva applicazione di norme e trattati internazionali – UNCLOS in primis – piegati deliberatamente a vantaggio degli interessi individuali, come nel caso della c.d. “territorializzazione” dell’alto mare o della “corsa” all’Artico, motiva l’insorgenza di situazioni di tensione legate alle crescenti rivendicazioni sui diritti di sfruttamento delle risorse marittime nonché sull’impiego, quasi esclusivo, di nuove rotte commerciali.

Al riguardo, è doveroso richiamare l’attenzione sulla nota “nine dash line doctrine” applicata dalla Cina nel Mar Cinese meridionale, come pure sui più recenti casi quali l’“episodio Saipem” nel Mar Mediterraneo orientale ed il recente blocco navale del ponte russo sullo stretto di Kerch nei confronti della Marina dell’Ucraina, che ha guadagnato la ribalta mediatica internazionale nel novembre 2018.

Questi episodi di “attrito in mare” tra potenze statuali, non più limitato al confronto verso organizzazioni terroristiche e criminali che operano sul mare, pone l’accento inoltre sul sensibile e crescente fenomeno della “marittimizzazione dei conflitti infra-statuali”. Il mare torna ad essere il luogo di confronto tra Stati che hanno aspirazioni globali o regionali ed il suo controllo, commerciale e minerario, diventa la chiave di volta per il più ampio disegno politico-economico.

Il lettore che ha avuto la pazienza di seguire sin qui potrebbe chiedersi: e quindi?

La risposta è semplice. Dall’analisi dei diversi casi esposti emerge l’esigenza di rivedere le norme e le finalità della Convenzione di Montego Bay, con un approccio più olistico, trasversale e moderno. La UNCLOS – benché pensata per regolamentare l’uso del mare per evitare e dirimere dispute da parte di stati rivieraschi e non – si presta oggigiorno ad interpretazioni alquanto spregiudicate per giustificare azioni discutibili sul piano etico ed ambientale.

Appare pertanto necessaria una revisione dei contenuti della stessa Convenzione sulla base di un quadro geo-politico decisamente differente da quello degli anni 80 e che conseguentemente richiede risposte normative diverse. Forse è addirittura opportuno pensare alla costituzione di una Corte Internazionale speciale, intesa proprio a dibattere le dispute sul mare.

Se restringiamo la lente sull’Italia, noteremo che il bene “mare” assurge a valore di interesse vitale grazie ai circa 8.000 chilometri di coste e ai 155.000 chilometri quadrati di acque marittime, interne e territoriali che la circondano.

Con l’80 per cento dei nostri confini bagnati dal mare, la blue growth costituisce, infatti, una parte molto importante del sistema produttivo nazionale, con circa 200.000 imprese impegnate nella cosiddetta «economia del mare», che va dalle attività primarie come la pesca, a quelle terziarie del turismo marino, dei trasporti marittimi e della ricerca e regolamentazione ambientale, passando per quelle secondarie quali la cantieristica.

Una forza imprenditoriale che rappresenta un motore per la produzione economica, il cui valore aggiunto è arrivato, nel 2017, a 45 miliardi di euro, pari al 2,9 per cento del totale economia, impegnando oltre 880.000 lavoratori, pari al 3,5 per cento dell’occupazione complessiva nazionale, mentre dal 2011 al 2017 il numero di impegnati è aumentato di più 4punti percentuali, a fronte di una crescita di solo l’1 per cento nel resto dell’economia.

Quindi, attesi i rischi per gli interessi nazionali celati dietro l’uso estremo del Diritto Internazionale del mare e della riduzione della disponibilità dell’Alto Mare attraverso il processo di territorializzazione, poc’anzi evidenziato, risulta opportuno effettuare una valutazione sui vantaggi e gli svantaggi collegati alla possibilità che anche l’Italia dichiari una sua Zona Economica Esclusiva (ZEE) marittima, in via precauzionale e a tutela dei diritti di sfruttamento – sostenibile – di risorse marine sempre più esigue, particolarmente in bacini chiusi come il Mediterraneo.

Risulta evidente, quindi, come anche in Italia emerga la necessità di creare una governance del mare dedicata, utile sia a sostenere la cultura marittima del nostro Paese, sia a meglio coordinare il cluster marittimo, composto da stakeholder e Istituzioni civili e militari che operano a vario titolo sul mare e capace di fare sintesi e raccogliere, in modo organico, le esigenze industriali e commerciali di settore, il quadro normativo e legislativo di riferimento e gli aspetti di sicurezza e Difesa marittimi.

In sintesi, dovrà essere ancor più un efficace strumento di politica estera in grado di tutelare non solo gli interessi nazionali ma anche e soprattutto preservare il mare quale “bene comune” dell’umanità in quello che è stato definito il “blue century”, dove la centralità del mare non è legata solo allo sviluppo sostenibile della “blue growth”, ma dovrà tener conto dei possibili risvolti della “blue law”, un tema che non più essere per soli “addetti ai lavori”.

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