“L’Europa è il primo continente al mondo a regolamentare l’Intelligenza Artificiale”. Questo tweet del Commissario Europeo, Thierry Breton, contiene informazioni inesatte e talora fake che – a mio avviso – non fanno onore ad un commissario europeo. Innanzitutto, c’è un macroscopico errore di geografia. Mi dispiace dover ricordare a Breton che sin dalle elementari si impara che il territorio del continente europeo è più grande dell’Unione Europea. Esso copre la vasta area che dalle coste dell’Oceano Atlantico arriva sino ai monti Urali e al fiume Ural, che poi confluisce nel Mar Caspio. In secondo luogo, Breton ha dato per scontato che l’ accordo sulla AI sia ormai concluso. Non è così. La verità è che manca ancora l’ ultimo passaggio. In assenza del testo definitivo è difficile esprimere una valutazione compiuta anche perché il diavolo si nasconde spesso nei dettagli.
Di seguito l’elenco puntuale delle importanti questioni rimaste ancora aperte e indefinite:
Il terzo aspetto (ed è quello che mi ha disturbato di più) è l’affermazione di Breton che l’Europa è arrivata prima a livello mondiale. Le misure legislative che la UE spera di approvare entro il marzo/aprile 2024 – prima delle elezioni del nuovo Parlamento Europeo – si inseriscono, invece, in un contesto globale in cui le maggiori potenze politiche, tecnologiche ed economiche del pianeta hanno deciso le loro strategie e se quando lo reputano necessario – le conseguenti misure normative in materia di AI.
Gli Stati Uniti e la Cina dispongono già – sia pur da poco – dei primi strumenti normativi di intervento.
Strategie e normative assai diversificate sono in atto (o in corso di imminente adozione) in India, Giappone, Regno Unito, Australia, Canada. Sono 69 le nazioni impegnate sul fronte AI, come è ben illustrato dall’OCSE.
Più che cullarsi su discutibili primati mondiali i partiti di tutti gli Stati membri, i Paesi dovrebbero avere la volontà e la capacità di misurarsi con le nuove sfide politiche indotte dall’Intelligenza Artificiale e, più in generale, dalle società digitali in cui siamo immersi. La sfida riguarda tutto il mondo, ma non è assolutamente eguale in tutto il mondo. Pochi giorni fa ho presentato un paper alla Conferenza Internazionale di Cybersecurity a Nuova Delhi.
Il filo conduttore della mia relazione è stato il seguente. Contrariamente a quanto si sostiene nei media mainstream) la rivoluzione digitale produce effetti profondamente differenziati nei vari Paesi del mondo. Per analizzare correttamente le diverse caratteristiche delle società digitali le principali variabili di cui tener conto sono almeno tre:
a) i sistemi politici e istituzionali;
b) il contesto storico, economico-sociale e religioso;
c) le capacità tecnologiche e la resilienza digitale delle singole nazioni.
Sotto questo profilo il concetto di neutralità tecnologica (molto caro alla Ue e al Commissario Breton) dovrebbe essere ripensato. Esso rischia di offuscare le molteplici e reciproche interazioni che si determinano tra sviluppo della ricerca tecnologica, i contesti sociali, le dinamiche di potere e i valori identitari che caratterizzano i diversi Paesi.
Questo è un punto essenziale in vista dell’imminente G7 a Presidenza Italiana la cui impostazione sarà illustrata nelle prossime settimane dal Ministro Tajani alla Farnesina. Ogni deve paese percorrere la propria strada. ma i paesi democratici (e gli Stati membri della UE in particolare) devono coordinare i loro sforzi in materia di AI, Big Data e Cybersecurity. Un abisso ci divide dal modo in cui i regimi autoritari impostano la tecnologia AI. La loro finalità ultima è infatti quella di potenziare e velocizzare il controllo e la vigilanza tecnologica di massa dello Stato rispetto alla vita dei cittadini, delle famiglie e delle imprese. Nel mondo libero deve (o almeno dovrebbe) accadere esattamente l’opposto.
Il binomio libertà e sicurezza, la promozione dei diritti fondamentali, la separazione dei poteri, le libere elezioni senza brogli. Il pluralismo partitico, culturale e religioso, la libertà di stampa e di libera espressione sono i pilastri su cui tutte le società digitali aperte devono ispirarsi nell’affrontare sul piano politico e normativo i vantaggi e i rischi delle nuove tecnologie, e dell’AI in particolare.
Tra pochi giorni sempre a New Delhi si riunirà il Global Partnership on Artificial Intelligence (GPAI) – Summit 2023. Il GPAI è un gruppo composto da una trentina di Stati che possono fare la differenza a livello mondiale, proprio perché si tratta di Stati caratterizzati da sistemi politici democratici.
Nella prospettiva del vertice GPAI in India del prossimo 13 dicembre spero che il Governo Meloni accolga l’invito del Primo Ministro Narendra Modi ad impegnarsi al massimo, perché i risultati siano lungimiranti e produttivi evitando che la UE si arrocchi su stessa. Come ho accennato nel corso della mia missione in India l’Italia deve compiere un salto di qualità nelle relazioni bilaterali italo-indiane.
La storia plurimillenaria dell’India, pur caratterizzata da molteplici conflitti di matrice territoriale, religiosa ed etnica, ha prodotto nella realtà contemporanea una società aperta che, diversamente dalle culture occidentali, non è ingabbiata dal dominio esclusivo della razionalità, ma include i valori più profondi dell’esperienza umana. Mi riferisco specificatamente alla dimensione affettiva e all’intelligenza emotiva che sono i driver che hanno alimentato i progetti di vita delle persone e che implicano un approccio critico verso le nuove tecnologie.
Per quanto attiene il delicato rapporto tra tecnologie emergenti e politica internazionale un altro aspetto su cui l’Italia dovrebbe svolgere un ruolo propulsivo in sede europea è rappresentato dall’attuazione più rapida possibile dei recenti accordi in materia di scambio reciproco dei dati tra UE e Stati Uniti.
Si tratta infatti di un campo molto vicino all’ambito AI. Negli ultimi 15 anni l’Unione europea – salvo il prezioso lavoro di Europol EC3 – non ha avuto fortuna nelle sue molteplici iniziative normative in materia digitale e di cybersecurity. Prima una incosciente apertura alla penetrazione cinese e poi un’arretratezza tecnologica strutturale le ha impedito di cogliere le tendenze emergenti. L’esempio più è stato il GDPR il cui significato sostanziale è stato annullato dalla migrazione dei dati in Cloud. È l’ ora di una svolta e l’Italia deve fare la sua parte, nonostante i continui boicottaggi di Viktor Orban, legato mani e piedi a Pechino.