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L’insulto in politica. Storia e cronaca (giallo-verde)

La licenza di insultarsi in politica è diventato un diritto. I Graffi di Damato

Non saranno sicuramente gli insulti, o simili, che si scambiano sistematicamente ministri e sottosegretari di entrambi i partiti che lo compongono a invertire la rotta sulla quale naviga il governo gialloverde di Giuseppe Conte: dal rimpasto alla crisi.

Vi è ormai licenza di insultarsi, sfottersi e provocarsi non solo fra opposizioni e maggioranza di turno ma ormai anche all’interno della maggioranza e del governo. E, onestamente, non solo in questa terza Repubblica, presunta o vera che sia, ma già da tempo. Anche negli anni della prima Repubblica i ministri di uno stesso governo si insultavano rimanendo ciascuno al proprio posto, e mettendo in difficoltà o facendo arrabbiare qualche volta solo il presidente del Consiglio di turno. Accadde, in particolare, al povero Giovanni Spadolini quando se ne dissero, e se ne diedero metaforicamente, di tutti i colori i suoi ministri Rino Formica, socialista, e Beniamino Andreatta, democristiano.

Questa volta, magari, diversamente da allora, la licenza di insultarsi in politica è diventato un diritto, con tanto di giurisprudenza recente che deve avere contribuito a  far fare spallucce al sottosegretario grillino Vincenzo Spadafora, sostenuto alla fine dal capo del suo partito Luigi Di Maio, quando il ministro dell’Interno leghista Matteo Salvini, da lui accusato di sessismo per gli attacchi rivolti alla soccorritrice navigante Carola Rackete,  lo ha sfidato a dimettersi per non trovarsi più in così scomoda compagnia nello stesso governo, per giunta in condizioni sottomesse, essendo pur sempre un sottosegretario di grado inferiore a un ministro, e ancor più a un vice presidente del Consiglio qual è appunto Salvini: anzi, il vice presidente del Consiglio “vicario”, come lo stesso leader leghista ha recentemente precisato, superiore quindi all’altro di parte grillina come il già ricordato Di Maio.

Il passaggio dalla licenza al diritto all’insulto nella competizione politica, a tutti i livelli, con relativa e sostanziale dissuasione a difendersi nei tribunali per evitare di peggiorare la situazione, anziché ricevere soddisfazione quando si ritiene di essere stati offesi, è passato purtroppo inosservato. Ce ne siamo occupati davvero in pochi. E di quei pochi, sono stati più quelli compiaciuti, che se ne sono vantati con titoli di prima pagina e altisonanti editoriali, che quelli sorpresi o scandalizzati di vedere il giudice Luigi Gargiulo scrivere e sentenziare nel tribunale di Milano che  dare del “cazzaro” a uno, ministro o non ministro che sia, come abitualmente fa Marco Travaglio su Fatto Quotidiano occupandosi di Salvini, significa cedere -letteralmente- a “un linguaggio ormai greve e imbarbarito”, deplorato proprio oggi anche sull’insospettabile Repubblica in un commento di carattere generale in prima pagina, ma senza commettere reato, perché si tratta pur sempre di “espressione veicolata nella forma scherzosa e ironica proprio della satira”.

Senza voler mancare di rispetto al giudice che ha dato torto a Salvini e ragione a Travaglio nella causa che il primo ha incautamente promosso contro il secondo, sarei curioso di sapere come reagirebbe il magistrato del tribunale di Milano se qualcuno gli desse del “cazzaro” dissentendo dal suo ragionamento.

D’altronde, per quel che può valere una testimonianza o esperienza personale, mi è capitato negli anni scorsi di subire un processo promosso da due delle tre giudici che condannarono in primo grado per prostituzione minorile Silvio Berlusconi, poi assolto in appello e in Cassazione, avendo definito “talebana” la loro sentenza, superiore alle stesse richieste dell’accusa, se non ricordo male. Per fortuna ho poi trovato un giudice che mi ha assolto, anzi una giudice, senza bisogno di spingermi a Berlino per reminiscenze letterarie, ma fermandomi a Brescia, la sede naturale e legittima della vertenza.

 

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