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John Kennedy

Il sogno americano di John Fitzgerald Kennedy, sessant’anni dopo

Ciò che John Fitzgerald rappresentava per gli USA e per il mondo intero, il suo carisma, il fascino del “grande sogno americano” sono transitati nella memoria collettiva di chi visse quegli anni e presso gli storici e cultori postumi come una stagione irripetibile che riguardava l’America certamente ma anche il mondo intero. L’intervento di Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo MIUR e Min. P.I.

 

Se alle 12:29 del 22 novembre 1963 la Lincoln Continental presidenziale – dove JFK sedeva in seconda fila – entrando in Dealey Plaza a Dallas avesse proseguito diritto su Main Street, come inizialmente era previsto, anziché svoltare a destra su Houston Street ad una velocità di circa 18 km/h, passando lentamente di fronte al deposito di libri della Texas School dove il suo assassino si era strategicamente appostato, forse il presidente Kennedy si sarebbe salvato da quel pericoloso viaggio elettorale in Texas, ricco di nefaste premonizioni e carico di un clima apertamente ostile a quella visita.

Ma John Kennedy che era consapevole dei rischi che correva – tanto da averne premonizione la stessa mattina – decise di affrontare il suo incerto e rischioso destino.

La storia non attende i ‘ma’ e i ‘se’ e compie inesorabile la sua parabola: tutto era stato orchestrato affinché in quel momento esatto a poche decine di metri di distanza Lee Oswald prendesse la mira e colpisse al collo e alla testa il Presidente che si accasciò tra le braccia di Jacqueline che gli sedeva accanto. La morte repentina al Parkland Memorial Hospital e ciò che avvenne quel giorno fatale – i dettagli macabri di quell’avvenimento, con i volantini listati ad un lutto annunciato, distribuiti alla folla lungo il tragitto che dall’Aeroporto di Dallas portava al luogo in cui John avrebbe tenuto il suo discorso, il rapido giuramento di Lyndon Johnson, le indagini, i depistaggi appartengono alla Storia di uno degli eventi più drammatici del ‘900. Compresa la successiva uccisione dell’unico indiziato – Lee Oswald – da parte di tale Jack Ruby. La televisione, per la prima volta nella storia, seguì una diretta non-stop per quattro giorni. L’assassinio del presidente Kennedy fu la più lunga ininterrotta sequenza di notizie nella storia dell’informazione giornalistica televisiva fino alle ore 9:00 dell’11 settembre 2001, quando i network trasmisero programmi in diretta per 72 ore consecutive, in seguito all’attacco terroristico al World Trade Center di New York e al Pentagono di Washington.

Sono stati scritti innumerevoli memoriali ufficiali e libri divulgativi (tra cui L’America di Kennedy e John F. Kennedy. Il nuovo sogno americano di Furio Colombo che allora viveva negli USA e ne era profondo conoscitore) su quel terribile evento ma non tutte le zone d’ombra sono state illuminate dalla verità. Tutta la vicenda appare come avvolta in un gigantesco, orchestrato complotto che avvinghiava la politica, la malavita, gli interessi e i potentati economici, le grandi lobby. Il più importante documento di inchiesta per venire a capo di una verità che nonostante la mole di lavoro immensa – le indagini dell’FBI fornirono oltre 25.000 interviste, 2.300 rapporti, 553 interrogatori – rimase successivamente velata da dubbi, incongruenze, coperture, connivenze e menzogne, fu quello elaborato dalla Commissione Warren che nel settembre 1964 presentò il suo rapporto finale: “Lee Harvey Oswald ha ucciso da solo il Presidente; Jack Ruby ha ucciso da solo Lee Oswald”.

Ciò che John Fitzgerald rappresentava per gli USA e per il mondo intero, il suo carisma, il fascino del “grande sogno americano” (la fine della guerra fredda, l’apertura all’Unione Sovietica che passava attraverso gli incontri e gli scambi epistolari con Nikita Kruscev, l’inizio di un’era di pace duratura, l’attenzione alle minoranze etniche, la sintonia ideale con Martin Luther King, la fine della crisi dopo i missili di Cuba, l’idea di una democrazia partecipata ed estesa a tutte le fasce di popolazione, di fatto ancor oggi un concetto di democrazia insuperato in ogni parte del mondo, al quale si è ispirato ad es. Tony Blair) una visione poi ereditata dal fratello Robert anch’egli tragicamente scomparso in un attentato nel 1968 per mano dell’immigrato giordano-palestinese Shiran Shiran, sono transitati nella memoria collettiva di chi visse quegli anni e presso gli storici e cultori postumi come una stagione irripetibile che riguardava l’America certamente ma anche il mondo intero.

Perché – come diceva JFK – “parlare di pace deve essere l’unico scopo razionale di ogni uomo razionale”: osservando oggi il nuovo (dis)ordine mondiale che va configurandosi, la devastante guerra in Ucraina, l’aggressione di Hamas ad Israele e il terribile conflitto che ne è scaturito, la pendente minaccia su Taiwan, l’emergenza di nuove potenze economiche e nucleari come Cina e India, il fondamentalismo islamico, la bomba latente di un’Africa pronta ad esplodere, oggi come e più di allora, il tema della concordia e della convivenza pacifica dei popoli e delle Nazioni si impone ancora una volta come cruciale.

Correvano i primi anni ’60, chi li ha vissuti ricorda le speranze legate ai grandi temi dei diritti civili e sociali, all’apertura della Chiesa cattolica alla scienza e al dialogo delle diverse fedi, alla crescita economica, all’uguaglianza tra i popoli, alla messa in archivio dei residui ideologici post-bellici: ricorda Martin Luther King, John Kennedy, Nikita Kruscev, Papa Giovanni XXIII. Uno spicchio significativo e denso di storia compreso nel periodo considerato da Eric J. Hobsbawm nel suo libro Il secolo breve 1914-1991, che va dalla fine della prima guerra mondiale alla caduta del comunismo.

John Fitzgerald Kennedy fu l’uomo delle grandi speranze collettive, e segnò una presenza indelebile nella cornice di quel tempo, artefice di una “Nuova Frontiera” che aprì ma non riuscì a realizzare.

Consapevole delle barriere da abbattere, a partire dal suo Paese ma anche dei muri ideologici retaggio della seconda guerra mondiale, come quando il 26 giugno 1963 a Berlino in piena Guerra fredda e con una città appena divisa dal muro, “Jack” pronunciava presso la Porta di Brandeburgo la storica frase: “Ich bin ein Berliner” (“Io sono un berlinese”).

Ma già nel suo discorso d’insediamento del 20 gennaio 1961 a Washington come 35° Presidente degli USA, quando rivolgendosi ai cittadini ebbe a dire “Non chiedete che cosa il vostro paese può fare per voi; chiedete che cosa potete fare voi per il vostro paese. Miei concittadini del mondo, non chiedete che cosa l’America vuole fare per voi, ma che cosa insieme possiamo fare per la libertà dell’uomo”. Un invito al senso del dovere che la lunga stagione della tumultuosa cavalcata dei soli diritti pare abbia davvero dimenticato.

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