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femminicidio

Il mainstream del femminicidio

Sperare che volersi bene e non farsi del male sia la panacea contro anaffettivi e malvagi è francamente insensato. Il mainstream retorico, si sa, non ha colore politico. Il corsivo di Battista Falconi

Sui femminicidi impera un mainstream, una narrativa, una retorica asfissiante che si alimenta di ogni caso di cronaca, rimestando morbosamente nel torbido. E che, ancora peggio, traccia frettolose filiere causa-effetto-soluzione che fanno capire quanto la nostra competenza come criminologi, psicologi e sociologi sia pari a quella che sfoderiamo parlando di dazi, criptovalute, geopolitica e virologia.

Una banalizzazione che non ha colore politico, come dimostrano fonti anche molto distanti tra loro. La scrittrice Viola Ardone sulla Stampa firma un intervento per il quale basta la titolazione: “Il possesso è una scoria radioattiva … Mille anni fa come oggi, il femminicidio è una peste che ha le sue radici nel patriarcato”, frasi indicative come l’incipit: “Martina è mia nipote. Martina è mia cugina. Martina è mia sorella. Martina è una mia alunna. Martina sono io”. Il problema principale non sta però nell’overdose di retorica contrapposta alla furia assassina, bensì nell’illusione che imporre la prima possa sedare miracolosamente la seconda: “Contro la violenza serve la scuola … Corsi obbligatori contro la violenza perché Martina sia l’ultima vittima”.

Sorvoliamo per carità e brevità sull’ingannevole chiusura: come per i morti sul lavoro o gli incidenti stradali, anche per gli omicidi commessi in famiglia e nelle relazioni affettive è forse troppo chiedere il coraggio di ammettere che non saranno mai debellati, si può lavorare solo per ridurli. Ma che spiegare di volersi bene e non farsi del male sia la panacea contro anaffettivi e malvagi è una francamente insensato. Il mainstream retorico, ripetiamo, non ha colore politico. In un’intervista, il ministro Valditara rivendica di avere inserito nelle linee guida scolastiche “l’educazione a relazioni corrette nei rapporti uomo-donna e al rispetto nei confronti della donna come un vero e proprio obiettivo di apprendimento”, poiché “si tratta di temi che devono essere affrontati e studiati al pari delle equazioni o delle poesie diD’Annunzio”.

Il titolare dell’Istruzione si è risposto da solo, considerando la smemoratezza e l’analfabetismo che circondano settenari e polinomi, endecasillabi ed equivalenze. Basterebbe domandarci se riusciamo ad andare oltre le tamerici salmastre ed Ermione, oppure quanto vale x se 4x-3x+17-12=0 (per restare al primo grado) per capire la fallacia del sillogismo “studieranno che un femminicida rischia l’ergastolo e saranno dissuasi”.

In questo profluvio, chi prova solo a fermarsi un istante, chiedendo di riflettere, approfondire, ragionare, appare un provocatore, specie se ne ha la fama come Vincenzo De Luca, il cui commento sulla “ragazzina uccisa ad Afragola a 14 anni” è stato: “Era fidanzata da due anni, 12 anni. Non so, è difficile … Io direi a quelli della mia generazione, siate padri e madri, non finti giovani. Soprattutto sui figli maschi”. Abbastanza per essere massacrato da chi ribatte “e quindi era giusto ammazzarla?” o rimprovera di parlare di età anziché “di chi le ha spaccato la testa con una pietra”, come Massimo Gramellini. Che peraltro contraddice una raccomandazione sempre opportuna sui commenti di cronaca nera: parlare solo degli assassini e non delle vittime rischia di esaltare i primi come eroi del male e riduce le seconde a meri oggetti. Certo, De Luca non ha l’autorevolezza del pedagogista Daniele Novara, che su Avvenire domanda: “Che significato può avere una relazione esclusiva, totalizzante, in un’età in cui il cervello non è ancora strutturato per gestire la complessità relazionale?”. Il senso sostanziale, però, non ci pare diverso.

Il caso di Martina è comprensibilmente finito fin nelle cronache della missione in Asia centrale di Giorgia Meloni, che rispondendo da madre oltre che da presidente del Consiglio ha detto una cosa condivisibile: “Non stiamo capendo completamente… non ho le risposte, ma se non ci facciamo le domande non possiamo trovarle”. E a Elly Schlein, che raccomandava di “mettere da parte le divisioni politiche” (altro classico mainstream sul tema), ha ricordato: “Non le abbiamo mai avute … Non c’è bisogno di appelli. Serve una riflessione enorme”.

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