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Supersocietà

Il futuro tra mondo distopico e libertà individuali e collettive

La recensione di Francesco Provinciali del libro di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti intitolato "Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà?", edito da Il Mulino

 

Il nuovo secolo non può essere più descritto e interpretato con le metafore della complessità e della società liquida anche se nel continuum della storia esso ne è in qualche modo l’evoluzione e la conseguenza: abbiamo tuttavia bisogno di nuove spiegazioni per comprendere il tramonto della globalizzazione, uscendo da quel magma indistinto che ci ha costretto a vivere nel limbo dell’indeterminato e del possibile, in una condizione di latenza tra virtuale e reale, sostenibilità eco-sistemica e antropologica, conflitti generazionali e modelli di sviluppo a centrazione tecnologica.

Un mondo lato ed esteso, senza una guida, per certi aspetti acefalo ed eterodiretto, nell’intersezione inestricabile di geopolitica e geoeconomia che ingloba la totalità della realtà, tra opposti e contrari.

Pandemia, disastro ambientale e guerra sono fratture che rompono schemi narrativi e impongono distonie esistenziali e nuove chiavi di lettura, proprio nel momento in cui la transizione ecologica e la digitalizzazione si esplicitano come vettori nuovi e ineludibili di una direzione di marcia irreversibile. Procediamo cercando di conservare appartenenza e radici ma siamo potenzialmente soccombenti di fronte all’incedere ‘per shock’ dagli esiti imprevedibili.

Quella che gli autori di questo libro – davvero informato ed esplicativo rispetto agli interrogativi del presente ed esplorativo, lungimirante e guardingo verso gli esiti di un futuro che avvertiamo affascinante, inquieto, non rappresentabile – descrivono con una definizione sintetica ad alto contenuto connotativo è una “supersocietà” che prende corpo e incede in modo non lineare, attraverso derive di verticalizzazione, scenari di radicalizzazione delle disuguaglianze e incognite di nuovi conflitti verso la configurazione di un nuovo ordine mondiale sotto diversi profili di considerazione.

Ci muoviamo nella direzione di una società distopica dove saranno determinanti i poteri forti che originano dalla prevalenza dell’economia, degli interessi espansivi e della pervasività tecnologica che esautora i valori dell’umanesimo in nome del pensiero che fa-di-conto, oppure riusciremo a conservare spazi di agibilità alle libertà individuali e collettive?

Il pregio di questo lavoro ad alta densità di consapevolezza intorno all’esistente è quello di porre alcune questioni centrali senza dimenticare i corollari: valga per tutti il tema di una tecnocrazia fagocitante che si esprima solo attraverso gli algoritmi dell’intelligenza artificiale, della ragione ridotta a calcolo e del ‘pensiero predeterminato’ applicato alla nostra vita senza difendere l’intelligenza pensante, l’immaginazione, fatta di errori e fallimenti ma anche di comprensione, aderenza alla concretezza dell’hic et nunc, creatività divergente, postulati etici che restituiscono libertà di scelta alla dimensione interiore e personale e a quella relazionale, per dirla con Tocqueville “l’interesse bene inteso”, ciò che noi chiamiamo più comunemente consapevolezza del bene comune.

L’antropologia del ‘900 ha gradatamente messo in evidenza la centralità dell’io con i suoi correlati identitari, il tema delle libertà individuali incrementato specularmente ai bisogni imposti dalla società dei consumi, l’utopia dei processi di crescita illimitata, l’ottimizzazione come modello di sviluppo applicabile in ogni campo dell’agire umano, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso è stata prevalente l’immagine dell’uomo ‘pulsionale’: i limiti oggettivi posti dal contesto, i fallimenti individuali e collettivi, l’antropocene contestualizzato in un ambiente reattivo hanno determinato problemi adattivi di cui il concetto di sostenibilità è l’espressione che meglio descrive la necessità del principio di controllo a fronte di potenzialità illimitate in un pianeta limitato.

Quando queste tendenze espansive devono misurarsi con l’oggettività dei confini si pongono problemi di criticità e l’idea di controllo non è più vincolata ai condizionamenti delle libertà individuali e collettive ma diventa uno strumento di autoregolazione ”perché il mondo è cresciuto tanto velocemente che si sono determinati quegli squilibri a partire dai quali, dai primi anni 2000 in avanti, sono scaturiti degli shock che uno dopo l’altro stanno rimescolando le carte dell’ordine sociale mondiale”.

Gli autori portano gli esempi dell’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, della crisi finanziaria del 2007/2008, dell’emergenza sanitaria determinata dalla pandemia del 2020, fino al ‘brutale attacco’ all’Ucraina da parte della Russia a far data dal 24 febbraio 2022.

Riflettendo sull’intensità ravvicinata e la virulenza di questi eventi (gli ultimi due ancora in corso) si deduce che nei periodi intermedi di apparente latenza l’umanità non è stata in grado di garantirsi né una durevole stabilità né un’evoluzione graduale e misurata sui piani del benessere e della sicurezza, “col paradosso che la difficoltà nel fronteggiare preventivamente le situazioni critiche non è dovuta tanto ad un’insufficienza di informazioni, quanto piuttosto alla loro ridondanza disordinata e quindi all’impossibilità di ricondurre la massa dei dati disponibili ad uno schema interpretativo condiviso e pertinente. Ciò rivela il difetto cognitivo di cui soffrono le società avanzate: viviamo in un mondo estremamente complesso, dove non riusciamo ad afferrare la catena delle interrelazioni”.

In effetti lo scatenarsi planetario della pandemia era stato ampiamente previsto dagli studi sulla zoonosi di David Quammen in Spillover, come dall’analisi dei dati di biosostenibilità ambientale di Edward O. Wilson. Quanto all’invasione dell’Ucraina era un evento atteso dalla comunità internazionale, lo stesso Corriere della Sera lo aveva da tempo messo al primo posto degli shock mondiali attesi nel 2022.

Se pertanto la discontinuità è un modo di porsi del capitalismo, la sostenibilità e la digitalizzazione sono le due categorie che ne vanno ridefinendo l’attuale configurazione, recando con sé una serie di incognite rispetto al futuro: mentre la prima si pone come limite al fuori pista dell’umanità, pena la sua stessa sussistenza, sulla seconda si possono avanzare riserve rispetto all’essere un passaggio ineludibile e necessitato, quanto piuttosto una scommessa che potrà rivelare sorprese inimmaginabili.

Ciò che è in gioco – in questo modello di supersocietà verticalizzato è la possibilità di destrutturare e ristrutturare i modi del conoscere e del ricordare, la circolazione dei dati, la selezione nell’archiviarli, la loro gestione e il loro controllo sulla via di una grammatizzazione totalizzante e burocratica, che ci espone ad intrusioni e manipolazioni poiché le connessioni digitali, delocalizzate e decontestualizzate, concentrate e rese disponibili possono diventare facili prede di interessi economici e commerciali.

Se da un lato l’elusione dei dati può provocare situazioni drammatiche e imprevedibili, dall’altro il loro pervasivo e totalizzante controllo ci porta a pensare ad una società distopica dove le libertà individuali e sociali possono essere indirizzate, distorte, limitate, conculcate. La destrutturazione e la polverizzazione delle dinamiche conoscitive e dei flussi informativi sono uno degli aspetti che la cultura digitale sta introducendo nei meccanismi relazionali: ciò si riscontra osservando come le idee radicate nella storia e tramandate dalla tradizione siano state a poco a poco sostituite dalle opinioni soggettive. Partendo dal presupposto che gli storici sostengono che lo sviluppo della civiltà ha un importante impulso nel passaggio da forme di vita nomadica a quella stanziale, gli autori invitano a valorizzare il territorio allo scopo di renderlo un insieme di coerenze cognitive e simboliche, il centro di una nuova ecologia relazionale.

“La direzione è quella di rendere il territorio locale uno spazio concreto di coindividuazione in cui sia possibile sviluppare pratiche trasduttive” attraverso la compresenza dei due driver della sostenibilità e della digitalizzazione. Fin qui il libro, che consiglio, e la mia modesta recensione.

Purtroppo nelle cadute altrettanto verticali della supersocietà che andiamo edificando, ci sono anche ritorni al passato di cui bisogna tener conto, e questa è la mia personale opinione: nuovi shock ci attendono.

Dal Medioevo – per certi eventi – siamo già ripassati, le invasioni barbariche di nuovi Attila si sono ripetute.

Vogliamo forse provare a ricominciare da capo tornando alla clava e all’età della pietra? Certamente no.

Ma non credo neppure nella funzione salvifica della digitalizzazione e quei 45 miliardi di euro previsti nel Pnrr per permearne la nostra vita puzzano di bruciato e si riveleranno un investimento fallace.

Perché un contesto istituzionale e comunitario in cui si nega ad un anziano la possibilità di commettere un errore nel consultare il cedolino della pensione in nome di pin, spid, algoritmi, codici alfanumerici e ‘app’ da scaricare, non è una “supersocietà” ma una congrega di soggetti disumani e spietati, incapaci di comunicare tra loro. Verrà il giorno in cui ciò che ora chiamiamo semplificazione sarà la tomba del pensiero e della parola.

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