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Il Conte che piace a Mattarella

Che cosa fa e che cosa dice il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. I Graffi di Damato

 

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, pur sollecitato dal primo momento e pubblicamente dal capo dello Stato a usare tutte le prerogative costituzionali del suo ruolo e a contare proprio in questo sull’aiuto del Quirinale, ha dato a lungo l’impressione di non avere se non la capacità, la voglia di rispondere alle attese e sollecitazioni di Sergio Mattarella. Di cui egli ha dovuto anche subire di recente, pur simulando poi una smentita al solito giornalista impertinente che gliene aveva chiesto conferma, una protesta tanto cortese quanto ferma per l’abitudine presa di licenziare in Consiglio dei Ministri provvedimenti complessi con la cosiddetta “riserva d’intese”. E ciò per cercarle o farle cercare, queste intese, dai ministri dietro le quinte, ma in un tempo così lungo da spazientire anche Giobbe sul colle, e da complicare, anziché dirimere, gli originari contrasti fra leghisti e grillini.

Amici comuni mi hanno raccontato del sollievo quasi festoso avvertito e mostrato perciò da Mattarella in due occasioni: quando Conte sciolse d’autorità il nodo della Tap, sbloccando il gasdotto con approdo pugliese per il quale lo stesso presidente della Repubblica si era impegnato visitando il Paese da cui partiva l’impianto, e assunse in prima persona la conduzione delle trattative con l’Unione Europea per ridurre di quasi quattro punti nel bilancio del 2019 il rapporto fra deficit e prodotto interno lordo annunciato sul balcone di Palazzo Chigi dal suo vice grillino Luigi Di Maio come la soluzione, finalmente, della povertà. Ma anche per l’intervento a favore della Tap il presidente del Consiglio aveva dovuto mettere in serie difficoltà il suo vice a cinque stelle. Che, già espostosi di suo per la conferma della produzione di acciaio a Taranto, ancora non può rimettere piede in Puglia senza rischiare contestazioni fisiche, oltre che perdite di voti effettivi o potenziali, da urne o da sondaggi.

Si deve probabilmente più a questi pur pochi precedenti ma tutti a scapito del partito che maggiormente sponsorizzò la sua nomina a presidente del Consiglio, e ne fu ripagato dopo un po’ con l’annuncio dell’adesione anche formale del professore al Movimento delle 5 Stelle, in occasione di un raduno nazionale al Circo Massimo, con tanto di presenza e discorso di Beppe Grillo; si deve probabilmente, dicevo, più a questi precedenti che ad una improvvisa esplosione muscolare la sorpresa che Conte ha voluto riservare questa volta ai leghisti con i modi e i tempi in cui ha praticamente messo alla porta del governo il loro sottosegretario Armando Siri. Di cui egli aveva già permesso silenziosamente che il ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli ritirasse le deleghe ai trasporti perché indagato per corruzione dalla Procura di Roma.

Nonostante l’equidistanza vantata con la richiesta ai grillini di “non cantare vittoria”, essendo questa evidentemente già chiara, Conte non si è limitato ad avanzare ragioni di opportunità politica a sostegno della decisione di portare nella prossima riunione del Consiglio dei Ministri la revoca del sottosegretario. Egli è entrato a gamba tesa anche nel merito delle indagini giudiziarie contestando di fatto, come un pubblico ministero, interessi di parte in atti di ufficio a Siri, con o senza corruzione, per avere soltanto proposto, senza neppure riuscirvi, modifiche alle norme vigenti destinate a procurare vantaggi addirittura retroattivi a un certo tipo di società eoliche, comprensivo di un’azienda che poi si scoperta posseduta da un amico, il professore Paolo Arata, e da un detenuto sotto processo per mafia.

Ora che ha mostrato i muscoli nei riguardi anche della Lega, non limitandosi, come altre volte, a dissensi da dialettica politica o ad arbitraggi come quello raffigurato su un ring da Emilio Giannelli sul Corriere della Sera, consentendo colpi bassi “da contratto” a entrambi i pugili, il presidente del Consiglio è stato gratificato di elogi forse da lui stesso inattesi per tono e provenienza. Che neppure Aldo Moro, lo statista conterraneo preso a modello da Conte nei giorni dell’insediamento a Palazzo Chigi, riuscì o cercò di guadagnarsi negli anni del suo maggiore potere.

“L’arte del comando gli piace quanto lo studio”, ha scritto del presidente del Consiglio, per esempio, sul Corriere della Sera il buon Marco Galluzzo riscattandolo dalla lunga rappresentazione di un uomo indeciso, generalmente sottomesso ai due vice presidenti del Consiglio, insieme o a turno, o di un “quasi presidente”. Così lo ha definito, in particolare, Francesco Merlo nella settimana di conduzione della rassegna stampa di Radio Radicale assuntasi in onore e memoria di Massimo Bordin. “Un quasi presidente come il quasi sottosegretario Siri”, ha maliziosamente precisato l’editorialista di Repubblica.

Con la stessa avventatezza, forse, che proprio Conte rimprovera ai giornalisti, a volte non a torto, quando riferiscono di liti nel Consiglio dei Ministri non verificatesi, o sfuggite all’attenzione di chi pure lo presiedeva, o attribuiscono al vice presidente di turno duri giudizi su di lui, come il “non me ne fido più” attribuitogli da tutti i giornali e smentito l’indomani da Salvini con un “me ne fido ancora, certo”, pur dissentendo dall’affondo contro Siri; con la stessa avventatezza, dicevo, sempre il buon Galluzzo ha riferito di Conte quest’affermazione: “Mi scoccia se qualcuno ne sa più di me”. Che sottintende la pretesa o l’aspirazione a saperne sempre più degli altri, francamente eccessiva anche sulla bocca di un professore di mestiere lasciatosi prestare alla politica addirittura per “restituire ai cittadini” – o al “popolo” di cui si autonominò avvocato assumendo la Presidenza del Consiglio- “la fiducia” nella stessa politica e “nelle istituzioni”. Vasto programma, per riandare al mai abbastanza citato generale Charles De Gaulle.

Tuttavia su Conte, e sempre sul Corriere della Sera, stavolta però di domenica e in prima pagina, Aldo Grasso ha mostrato meno sorpresa o entusiasmo di Galluzzo. Ne ha scritto come dell’Antonio Ferrer di manzoniana memoria, il gran cancelliere dello Stato di Milano che salvò dal linciaggio il vicario di Provvisione Ludovico Melzi d’Eril con la formula del “Pedro, adelante con juicio”. Il professore rimarrebbe “una frase fatta di questa stagione politica”, una espressione di “inerzia”. O, peggio ancora, del “luogocomunismo subentrato al comunismo”, con l’effetto di “svendere il carattere nazionale al pensiero immobile del luogo comune”.

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