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Giorgetti

Il centenario della marcia fascista su Roma e l’insediamento del nuovo governo visti dalla satira

Il soccorso della satira alla demonizzazione del nuovo governo. I Graffi di Damato

 

Sventata dalle circostanze, o dall’avvedutezza della cronologia voluta soprattutto dal presidente della Repubblica accelerando al massimo la parte conclusiva della crisi apertasi – non dimentichiamolo – a luglio con le dimissioni di Mario Draghi, e sfociata nelle elezioni politiche, la coincidenza tra la fiducia parlamentare al governo di destra-centro di Giorgia Meloni e il centenario della marcia fascista su Roma è rimasta appannaggio della satira. Un po’ truce quella di Laura Pellegrini su Repubblica, con la firma di Ellekappa, che su sfondo nero ha sollevato la torta del centenario, appunto, col fuoco della fiamma tricolore che accomuna tutte le edizioni e trasformazioni della destra nata nella Repubblica italiana sulle ceneri del fascismo.

Meno truce, o più ironico, come preferite, è stato il vecchio Sergio Staino sulla Stampa che per fortuna, con la Meloni a Palazzo Chigi già da lunedì, fornita della campanella passatale da Mario Draghi ben contento di avere finito il suo lavoro di presidente del Consiglio, il centenario della marcia di Roma “è ancora un giorno feriale”, oggi che è venerdì.

Del resto chi volesse malauguratamente trasformarlo in un giorno festivo, come in fondo mostra di temere anche il non conformista di sinistra Piero Sansonetti con quel vistoso titolo del suo Riformista sul permanente “rischio fascismo”, perpetuerebbe un falso storico, come ci ha raccontato sull’insospettabile Fatto Quotidiano il buon Claudio Fracassi.

Quest’ultimo ha ricordato: “Mussolini, che non aveva fatto nemmeno un metro di Marcia, arrivò in treno alla stazione ferroviaria della Capitale alle 10,50 di lunedì 30 ottobre (altro che 28 ottobre, data storica inventata un secolo fa) in uno scompartimento-letto del treno direttissimo Milano-Roma che seguiva, secondo l’orario, il percorso Piacenza-Fornovo-Sarzana-Pisa-Civitavecchia-Roma. Il convoglio doveva arrivare alle 9,10, ma quel mattino comparve alla stazione Termini con un’ora di ritardo”. Anzi di più: un’ora e quaranta minuti.

Anche quel ritardo Mussolini si propose forse di riscattare perseguendo nella sua azione di governo l’ambizioso progetto, naufragato anch’esso col suicidio della seconda guerra mondiale con Hitler, di fare assomigliare l’Italia alla Svizzera per la puntualità dei suoi treni. Un progetto che alcuni decenni dopo, riproposto dalla destra che lui riteneva “in libera uscita dalla Dc”, un disincantato successore di Mussolini alla guida del governo come Giulio Andreotti paragonò a quello di un “pazzo” convinto di essere “Napoleone”.

Il marito di Liviuccia, come abbiamo scoperto che chiamava la moglie leggendone ora le lettere che soleva scriverle frequentemente, col realismo che lo distingueva si accontentava che i treni viaggiassero con il minore ritardo possibile. E – temo per quanti ora si aspettano un altro ventennio, stavolta al femminile – che pure per Gorgia Meloni i treni debbano garantire puntualità sì, ma ancor più sicurezza, senza naturalmente arrivare ad essere né puntuali né sicuri.

In tal caso la Meloni diventerebbe davvero la maschera rappresentata per altri versi  sul Fatto – e dove sennò? – dalla vignetta di Riccardo Mannelli. Oddio, che ho scritto? Rischio di finire tra quelli bastonati ieri da Marco Travaglio nell’esprimere la “speranza” che Giorgia Meloni “sappia nuotare, vista la cascata di bava e saliva che la inonda e che affogherebbe pure Gregorio Paltrinieri”, il ventottenne campione del mondo in vasca lunga e nei dieci chilometri in acque libere.

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