Il boia in Iran è senza freni – si è già portato via la vita di quattro manifestanti mentre altri cento rischiano grosso – e infierisce addirittura su un ex viceministro della Difesa, Alireza Akbari, impiccato ieri con l’accusa di aver spiato per la Gran Bretagna, di cui Akbari possedeva la cittadinanza.
L’ESECUZIONE DELL’EX VICEMINISTRO
Ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione e veterano della guerra in Iraq, Akbari aveva ricoperto varie posizioni di vertice nel campo della sicurezza nazionale, della difesa e del nucleare, prima di lasciare il Paese per la Gran Bretagna. Era stato uno stretto collaboratore di Ali Shamkhani, oggi segretario del Supremo Consiglio di Sicurezza Nazionale, e già ministro della Difesa tra il 1997 e il 2005, periodo in cui Akbari fu suo vice.
La notizia della sua esecuzione, riporta Reuters, è stata data dal giornale organo della magistratura, Mizan, con un tweet lanciato di primo mattino che non specificava il momento esatto in cui Akbari è stato messo a morte.
“Alireza Akbari”, ha scritto Mizan, “è stato condannato a morte con le accuse di corruzione sulla terra (e di) spionaggio per conto del servizio di intelligence del governo britannico”. Nello stesso giornale si sostiene che l’ex viceministro avrebbe ricevuto per i suoi servizi 1.805.000 euro, 265.000 sterline e 50.000 dollari.
Come sottolinea il New York Times, Akbari è stato arrestato nel 2019 e tenuto in custodia sin da allora. La sua detenzione non è divenuta di dominio pubblico per la volontà della famiglia, che sperava in una risoluzione del caso.
Giovedì scorso, riferisce ancora Reuters, i media di stato hanno trasmesso un filmato contenente la presunta confessione di Akbari, che avrebbe avuto un ruolo, si sostiene, nell’assassinio di uno scienziato nucleare iraniano, Mohsen Fakhrizadeh, vittima nel 2020 in un attentato che le autorità di Teheran attribuirono ad Israele. Nel video Akbari non ammette il proprio coinvolgimento nell’assassinio, ma solo di aver ricevuto richieste di informazioni sullo scienziato da un agente britannico.
Poche ore dopo tuttavia BBC Persian ha pubblicato un audio in cui Akbari sostiene di essere stato “interrogato e torturato per più di 3.500 ore” dall’intelligence iraniana e di essere vittima della volontà del regime di “vendicarsi contro la Gran Bretagna”, che tra le altre cose ha adottato la linea dura nelle trattative sull’accordo nucleare e ha elevato sanzioni contro la polizia morale e alti funzionari iraniani a causa della loro violazione dei diritti umani durante le proteste che hanno infiammato l’Iran dallo scorso settembre.
Ma il Ministero dell’Intelligence ha tenuto il punto affermando, come riporta il New York Times, che Akbari era una “superspia” del MI6, il servizio di intelligence esterna di Londra.
ESECUZIONI SENZA SOSTA IN IRAN
L’Iran contende all’Arabia Saudita il primato nel ricorso alla pena di morte in Medio Oriente.
Come emerge da un rapporto di Amnesty International del maggio 2022, il regime nel 2021 ha eseguito 314 sentenze capitali, il 20% in più dell’anno precedente.
Ora però che gli ayatollah sono sfidati da un movimento rivoluzionario che è sceso in piazza ininterrottamente dallo scorso 17 settembre, e che sono sotto pressione da parte della comunità internazionale per via della brutale repressione, il tema della pena di morte è tornato prepotentemente in primo piano.
Come ricorda Reuters, sono quattro i manifestanti impiccati dal giorno in cui è iniziata la rivolta, gli ultimi due dei quali hanno sono stati mandati a morte lo scorso sabato con l’accusa di aver ucciso un membro del corpo paramilitare dei Basij.
Come conseguenza di questo giro di vite, le manifestazioni hanno perso di intensità e sono ora concentrate nelle regioni sunnite del Paese.
Secondo un calcolo della Cnn sono 43 i manifestanti a rischio esecuzione, ma per gli attivisti del gruppo 1500Tasvir il numero sale a quasi cento.
Pesanti sono le violazioni dei diritti dei detenuti attribuite al regime. “Gli accusati”, osserva Tara Sepehri Far, ricercatrice di Human Rights Watch, “sono sistematicamente privati dell’accesso ai loro legali durante il processo e sono soggetti a torture e confessioni strappate con la coercizione”.
Forzando notevolmente il diritto, è l’accusa dell’Ufficio Onu per i Diritti Umani, il regime attribuisce ai manifestanti accuse sproporzionate rispetto all’entità dei fatti contestati, come “muovere guerra contro Dio” (moharebeh) e “corruzione sulla terra”, reati che implicano, secondo il sistema della shari’a, la pena di morte. Altre persone, secondo Far di Human Rights Watch, “sono state condannate alla pena di morte per accuse estremamente vaghe come la distruzione e l’incendio di proprietà pubbliche”.
EFFETTO DEL GIRO DI VITE: LA PROTESTA VA UNDERGROUND
A giudicare dall’effetto ottenuto con le prime quattro condanne a morte, la strategia del regime di ricorrere alla forza bruta per reprimere le proteste sembra aver prodotto qualche risultato.
Tuttavia, a detta di alcuni analisti ed esperti che hanno parlato con Reuters, l’effetto del ricorso alla violenza di stato è solo di “spingere underground il dissenso”.
È senz’altro vero, ammette Saeid Golkar, dell’Università del Tennessee di Chattanooga, che “il numero delle persone che scendono in piazza è diminuito”, ma la repressione “ha creato un massiccio risentimento tra gli iraniani”.
Le proteste, continua Golkar, “non sono finite, ma hanno solo preso una forma diversa. I manifestanti o sono in prigione o hanno deciso di andare underground perché sono determinati a trovare un modo diverso per continuare la lotta”.
Seppur con modalità differenti, la protesta continua, “non ultimo – sottolinea Reuters – perché le motivazioni alla base della rivolta rimangono senza risposta”. Non sarà con il ricorso sistematico alla violenza che il regime farà dimenticare al popolo le condizioni miserevoli in cui versa a causa di un’inflazione che galoppa sopra il 50%, di una disoccupazione giovanile che supera il 50%, della povertà dilagante e delle conseguenze delle sanzioni Usa che mordono su ciò che resta dell’economia iraniana.
Ecco perché, a detta di Alex Vatanka, direttore del programma Iran al Middle East Institute di Washington, la repressione “può essere efficace nel breve termine ma non funzionerà nel lungo termine”: per Vatanka il deterioramento della situazione economica continuerà a spingere un’intera generazione di iraniani deprivati a cercare “un grande cambiamento politico, e lotteranno per questo”.